Continuità e rottura: se, come è stato affermato, la politica estera di Barack Obama, nel suo first term, ha avuto come obiettivi primari quelli di: – togliere il primato operativo e politico alla Global War on Terror ereditata dalla Presidenza di G.W. Bush. – circondare la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese con una rete di paesi amici degli USA. – riconsiderare il nesso tra Washington e il mondo arabo-islamico, allora il second term del Presidente Obama sarà certamente nel solco di queste scelte di global strategy, ma naturalmente il capo della Casa Bianca dovrà riconsiderare i suoi rapporti sia con l’Unione Europea che con l’America Latina e l’India nella sua futura scacchiera. Il problema, in sintesi, è questo: se, nel first term, Barack Obama ha concentrato i suoi sforzi nella direzione di una collaborazione economica e di una concorrenza strategica simultanea con la Cina, nella seconda parte della sua presidenza dovrà certamente elaborare una politica europea di tipo nuovo, dato che gli Usa, come peraltro il pillar europeo dell’Alleanza Atlantica, non possono coprire da soli la dimensione strategica delle nuove sfide nel Grande Medio Oriente, in Asia Centrale, nel Sud-Est asiatico. Per l´effetto-rottura, Barack Obama cercherà con ogni probabilità un nuovo patto transatlantico, anche mettendo mano alla riforma della Nato , con due “livelli” dell´Alleanza. Patto che sarà economico: sostegno degli Usa in leggera ripresa al rientro della Ue dalla crisi, e politico, impegno del pillar europeo della Nato e di alcuni paesi UE alla stabilizzazione dell’area maghrebina, dell’Egitto e, in prospettiva, del Grande Medio Oriente. Per Barack Obama, o l’Ue si regionalizza definitivamente e diviene ininfluente sul piano strategico e geopolitico, oppure si inserisce nella direzione che Washington ha intrapreso verso le nuove direttrici dello sviluppo globale e dei nuovi cleavages militari in Asia Centrale, verso la Federazione Russa, in direzione della Cina, nel contrasto strategico all’Iran e nella ridefinizione del ruolo dell’Islam politico in tutto il Medio Oriente. Se l’Ue accetterà questo deal, gli Usa la aiuteranno ad uscire dalla crisi pompando le importazioni europee e sostenendo un corso relativamente alto, ma minore del US dollar, per l’euro, altrimenti l’Ue verrà abbandonata al suo destino . L’India, in particolare, sarà un focus di interesse determinante per la politica estera e quella economica di Obama: la visita ufficiale del presidente americano nel 2010 , la più importante nella storia delle relazioni bilaterali tra i due paesi, significa che Washington intende avere Nuova Delhi come pivot strategico nell’area, per sostituire, all’occorrenza, le importazioni a basso prezzo dalla Cina, controllare l’Asia Centrale da Sud, riequilibrare il sistema di relazioni tra gli Usa e il Pakistan, troppo dipendente da Islamabad per la guerra in Afghanistan, stabilizzare tutta la linea marittima che va da Gwadar , il porto “cinese” in Pakistan, fino al Golfo Persico . Ma, è bene chiarirlo subito, gli Usa vanno in India, come negli altri pivot strategici definiti da Obama nel suo second term, per sostituire la UE, non per sostenerla nella sua espansione. Se nel primo mandato il Presidente aveva gestito una relazione tra l’America e l’Asean, ora Barack Obama creerà, nel suo viaggio in Asia, una sequenza di relazioni bilaterali con Cambogia, Myanmar, Filippine, Vietnam, tali da “accerchiare” Pechino, rendere difficile la sua prossima espansione economica in Giappone e la probabile presa di Taiwan, e soprattutto ristabilire un primato commerciale di Washington nell’area. Non è un caso, infatti, che nella campagna elettorale sia di Barack Obama sia di Romney, come è stato notato, non si è parlato, se non accidentalmente, di Europa . Per il Presidente Obama, l’Europa conta innanzitutto per la linea di controllo strategico della Federazione Russa che va dalla Cechia alla Polonia , per la eventuale collaborazione nel ridisegno del Maghreb e del Grande Medio Oriente dopo le “primavere arabe”, per la gestione, in area Nato; del sistema strategico che va dall’Egitto all’Oceano Indiano. Ma, proprio per lo straordinario costo del nuovo assetto strategico “asiatico” di Barack Obama, l’Ue e l’Alleanza Atlantica saranno chiamate, certamente, a collaborare a questa geopolitica “a braccio lungo”, o come Unione Europea o, come è più probabile, in quanto singoli Paesi europei. Un nuovo multilateralismo Usa che presuppone un ridisegno dell’egemonia di Washington sull’Europa Occidentale, vista come antemurale della Russia social-zarista di Putin e come elemento di controllo e pressione integrativa per il mondo arabo e islamico dopo le sue “primavere” . Gli Usa faranno di tutto per evitare che si realizzi una continuità strategica, finanziaria, politica e militare tra la Federazione Russa e la penisola eurasiatica. Sul piano economico e finanziario, Obama, nel suo secondo mandato, intende in particolare: – evitare il fiscal cliff del Gennaio 2013 , soprattutto riducendo in simultanea il debito pubblico e limitando la diminuzione delle tasse. – Barack terrà la spesa pubblica al 22% del PIL – taglierà la spesa militare del 4,6% . La normativa attuale, se non si pongono di fronte ad essa scelte specifiche nel Congresso prima del 1 gennaio 2013, taglierà automaticamente di 500 miliardi di Usd ogni anno il budget della Difesa, rendendo il bilancio del Dipartimento della Difesa lo stesso di quanto era nel 2007, fatta salva l’inflazione. Tanto maggiore la diminuzione degli investimenti nella Difesa Usa, tanto maggiore a sua volta sarà, per Obama, la necessità di una azione di soft power costante nei confronti dei più antichi alleati. Ovvero, il presidente Obama creerà le condizioni per un multilateralismo geopolitico forte, ma facendo concorrenza, simultaneamente, ai Paesi Ue in crisi e, in particolare, che gestiscono la scelta obbligata dell’export verso i BRICs come volano inevitabile delle loro economie stagnanti. “Esportare la credibilità dei propri debiti” diverrà uno dei punti primari della concorrenza interoccidentale, per assorbire la quota di mercato in crescita dei BRICs, sempre più ristretta, e creare con il volano dell’export il sostegno alla stabilità interna o, in qualche caso, all’inizio della crescita. Altra è la questione del legame tra le due sponde dell’Atlantico dal punto di vista economico e finanziario. Gli Usa, in altri termini, cercheranno di vendere il loro debito a medio termine agli europei, mentre compreranno, per espandere il loro mercato, titoli a breve Ue. Per Washington, che è ancora il maggior partner commerciale della Ue, è prioritario depotenziare la crisi finanziaria europea, che è però strutturale, senza creare le condizioni di una sfida globale sui mercati da parte dell’Eurozona. In qualche caso, si è arrivati a proclamare l’irrilevanza, per gli usa, dell’area euro , e quindi la richiesta di lasciarla al suo destino. Qui la strategia globale incrocia la finanza. Washington ha sempre sospettato che, dietro al progetto della moneta unica europea, ci fosse la voglia, da parte della Ue, di fare concorrenza al dollaro e alla power projection statunitense. In alternativa, gli Usa potrebbero accettare una grande Ue che inglobasse Macedonia, Islanda e, soprattutto, Turchia, fino ad arrivare al vero punto in questione: l’entrata nella Unione Europea di Georgia, Ucraina, perfino Azerbaigian e Armenia . In questo caso, la sicurezza delle reti di gas naturale e petrolio dalla Federazione Russa e dall’Asia Centrale diverrebbero affare interno dell’Unione, sollevando, in gran parte, gli Usa dalla gestione del contrasto interno, per Georgia e Ucraina, con Mosca. La quale, naturalmente, non mollerà mai l’osso caucasico, centro del suo “mercato del venditore” del gas verso l’Ue, garanzia dei sovraprofitti che hanno finora finanziato sia la stabilità sociale russa che il suo riarmo nucleare e, soprattutto, le rendite improduttive della sua classe di oligarchi, dentro e fuori il regime di Putin. Washington vuole allargare il solco tra Bruxelles e Mosca, e ritiene il sistema di Putin utile per stabilizzare la pressione della Cina a Nord e a Sud, ma foriero di pericoli strutturali nella sua proiezione di potenza “eurasiatica” verso Berlino e, fino a un anno fa, Roma. Anche in questo quadrante strategico, Washington farà di tutto per sostenere un asse bilaterale con la Turchia, che per gli Usa è il “centro di controllo” del sistema petrolifero di Putin, e l’area dalla quale gestire la linea verso il Libano e la Siria, sostenere, sia pure con qualche diatriba, Israele, controllare il Mediterraneo orientale. Ankara è e sarà sempre più importante nella geopolitica Usa, e Obama farà ulteriori pressioni per far entrare la Turchia nella Ue, o magari per creare una “Nato dell’Est” con al centro il sistema turco . La crisi dell’euro è tale poi da impedire anche la recovery statunitense, ma non possiede ancora gli strumenti finanziari per stimolare, da sola, la crescita europea . Anzi, la pressione sul mercato internazionale dei capitali da parte della UE e degli Usa per la loro recovery rende la concorrenza finanziaria tra le due sponde dell’Atlantico una issue geopolitica di grande rilievo. Washington vuole un Euro abbastanza basso da non attirare capitali da investimento globali, ma sufficientemente alto per non fare concorrenza al Dollaro dopo la crisi del 2008. Se l’Euro si indebolisce contro il dollaro Usa, allora aumenta il deficit commerciale nordamericano con la Ue, mentre l’incertezza dei mercati finanziari UE crea una fuga dagli investimenti che influisce negativamente anche sugli asset del Tesoro Usa. Inoltre, la scarsa crescita dell’Eurozona, addirittura negativa in questi ultimi mesi, diminuisce l’espansione del trade Usa, indebolisce ulteriormente un già provato sistema bancario Ue e, soprattutto, crea un deficit commerciale per i Pesi dell’Europa del Sud, rendendo pressoché impossibile a quest’area geoeconomica la prosecuzione di una crescita export-led. Gli Usa fanno la guerra all’euro per acquisire sulla loro moneta i capitali dall’Asia e dal mondo arabo e islamico, ma è una lotta che non possono ingaggiare in pieno, per evitare che la caduta dell’Eurozona si porti con sé quella del principale e, fino ad oggi, insostituibile partner commerciale primario degli Usa, la Ue. Che è quello che Washington, la crescita export-led dicevamo, anche sul piano strategico e geopolitico, vuole che l’Unione Europea faccia al più presto. Ma, naturalmente, gli Usa non vogliono nel modo più assoluto la crescita dell’export tedesco a spese del resto della Ue, che renderebbe asimmetrica la crescita futura americana, non sarebbe sufficiente per il grande mercato dei produttori Usa, e creerebbe, inoltre, un ulteriore legame tra Berlino e Mosca, un meccanismo tale da impedire l’espansione strategica di Washington sia in Asia Centrale che in India e, in futuro, nel nuovo Golfo Persico . L’interscambio commerciale tra Washington e Berlino, il primo partner fuori dall’Eurozona, è stato, per gli ultimi dati disponibili, di 97 miliardi di Usd nel 2011, mentre gli investimenti esteri diretti tedeschi negli Usa valgono 213 miliardi di Usd . La Germania è quindi un concorrente potenziale globale per Washington, che farà di tutto per diluire l’aggressività commerciale tedesca nell’ambito della Ue e del suo “Fianco Sud” geoeconomico. L’Ue, nella sua totalità, è il primo fornitore di lavoro e capitali negli Usa, con 3,1 trilioni di Usd nel 2008, e genera il 78% di tutti gli investimenti esteri diretti presenti negli Stati Uniti. È quindi del tutto evidente che, in un contesto di possibile “contagio” finanziario da parte dell’Eurozona verso le sue aree di maggiore export (e di maggiore deficit delle esportazioni, Washington da un lato stimoli l’area Euro a proseguire nelle riforme, dall’altro voglia, proprio con la sua espansione dell’export verso la Ue (+11,2% nel 2011 garantirsi nei confronti di un collasso dell’intera zona a moneta unica europea . Con la Francia, la questione è antica e complessa. Gli Usa sanno bene che Parigi ha una diversa visione dei suoi interessi nordafricani (ed infatti è stato Sarkozy, più che Cameron, ad iniziare l’affaire della rivolta libica contro Gheddafi) e che le politiche francesi in Nordafrica non saranno mai del tutto complementari a quelle dell’Africom Usa . Sarkozy voleva la rivolta a Bengazi per togliere di mezzo un dittatore come Gheddafi, stretto amico dell’Italia, e ha favorito la “rivolta dei gelsomini” in Tunisia per togliere dalla continuità filofrancese tra Marocco e Libano un dittatore, come Ben Alì, voluto dai Servizi italiani in contrasto con quelli francesi. E Hollande, attuale presidente francese, intende “valutare” gli effetti del pieno rientro, nel 2009, di Parigi nelle strutture centrali di comando dell’Alleanza, mentre ritiene che la difesa europea interna al quadro Nato sia ancora carente rispetto alle promesse del 2009. Il problema è che la Francia non ha una dottrina moderna e aggiornata, di carattere non-nucleare e non nazionalista, contro le minacce geofinanziarie tous azimuts, come peraltro dimostra la recentissima campagna di stampa sul debito sovrano di Parigi. E, peraltro, la Francia non lascerà mai sguarnita la sua area di contatto con il Maghreb, e il suo accesso autonomo al Medio Oriente. Ma, per Washington, aggravare la tensione dei titoli francesi sui mercati secondari significherebbe favorire l’egemonia tedesca sull’economia Ue, il che non è negli interessi degli Usa. Gli americani vogliono ricreare una loro dominance in Ue, ma evitando di creare concorrenti pericolosi nel contesto europeo, in una riedizione del “Plan for Europe” (“The Year of Europe”, più esattamente, dal 1972 al 1974) che Henry Kissinger aveva congegnato dopo la crisi del 1973 : una gestione della commercial paper Ue amichevole, a condizione di una regionalizzazione economica, finanziaria, produttiva. La Ue come area di seconde produzioni Usa, come era accaduto con il “Piano Marshall” dopo la chiusura del secondo conflitto mondiale. Una Ue, ancora, che opera con tecnologie “mature” che vengono sostenute da un finanziamento internazionale per il debito pubblico dei paesi europei, che consente il mantenimento di una pace sociale accettabile. Gli Usa, nel second term obamiano, opereranno ancora di più per una riduzione dello “stato sociale” europeo ed una concentrazione dei capitali da investimento, nei paesi Ue, verso le attività produttive e finanziarie, con un lento ma sicuro smantellamento di un Sozialstaat che anche i democratici Usa vedono, in Europa, inutilmente grande e costoso. Oggi, negli Usa, il Regno Unito è di gran lunga il maggior investitore per gli Fdi, con 441 miliardi di Usd mentre il Giappone, “sponda” nel Pacifico alla pressione Ue, è il secondo maggior generatore di investimenti esteri diretti negli Usa, con 289 miliardi di Usd, mentre i francesi sono solo sesti, con investimenti esteri diretti negli States per 199 miliardi di Usd, seguiti, ma qui il problema vero è la reale origine dei fondi, dal Lussemburgo, con 190 miliardi di dollari . L’asse, oltre che dall’equilibrio euro-dollaro, è determinato dal sistema dei flussi dei petrodollari. Il debito Usa, oggi, totalizza circa (scriviamo alla fine di novembre 2012) 16.362.887.827.000= Usd . In media, circa il 50% del debito detenuto in dollari è in mani estranee agli Usa e all’estero. Si tratta, ancora, del sistema dei petrodollari, nel quale circa l’85% dei flussi e quindi dei ricavi si realizza fuori dagli Usa .Quindi: data la crescita strutturale del mercato degli idrocarburi: – i dollari sono carenti indipendentemente dalla loro sostenibilità come massa monetaria interna – una quota sempre maggiore di Us dollars rimane parcheggiata all’estero e non ritorna in patria – i bonds del Tesoro Usa riducono strategicamente la quantità fisica di dollari presenti all’estero – riciclaggio dei Us dollars nel mercato petrolifero attraverso il Nymex e l’Ipe . Quindi, dati questi elementi, l’export USA è facilmente sostenibile,e il suo eccesso diviene una scelta politica accettabile nel medio periodo. Il mercato finanziario internazionale tende a richiedere sempre più dollari, che servono ad alimentare le riserve per l’acquisto di idrocarburi e, contemporaneamente, Treasury Bonds Usa. Qualunque cosa accada, Barack Obama eviterà che l’Iran imiti Saddam Hussein che, il 6 Novembre 2000, scelse l’euro come moneta base per le transazioni sul petrolio iracheno. Il monopolio del dollaro, soprattutto nei confronti dell’euro, sarà sempre una delle priorità assolute delle presidenze Usa e della seconda di Barack Obama in particolare. È un pericolo serio: nel 2003 l’Iraq e la Giordania hanno siglato un accordo per gestire transazioni petrolifere in euro, con il passaggio di oltre la metà delle riserve irachene alla moneta unica europea, mentre il parlamento russo e quello iraniano hanno discusso, nello stesso anno, l’eventualità di trattare i loro idrocarburi in euro. Gli Usa vogliono il monopolio del dollaro nelle primarie transazioni internazionali, che è il sostituto geopolitico dell’oro nel vecchio accordo di Bretton Woods in cui 44 paesi amici degli Usa, il 1944, predisposero una serie di parità fisse tra loro e il dollaro e tra la divisa Usa e l’oro . Il metallo prezioso non genera che limitatissima inflazione, la carta moneta invece sì. L’accordo cessò, come è noto, nel 1971, a Ferragosto, quando il presidente Richard Nixon abolì la convertibilità fissa dell’Us dollar con l’oro secondo i parametri assegnati a Bretton Woods. L’inflazione generata e esportata da Washington verso la Ue pagava così, simultaneamente, il costo della guerra nel Vietnam e i costi della Great Society di Lyndon B. Johnson, mentre i paesi europei venivano sommersi da beni e servizi Usa a buon mercato, data l’inflazione prevista in Nordamerica. Oggi, siamo in una situazione simile: se Washington riesce a far digerire ai mercati petroliferi in crescita la grande massa di quantitative easing, di dollari stampati “out of the thin air” per evitare la crisi dei mercati interni Usa, allora una quota di titoli denominati in euro verrà comprata dalle principali case finanziarie statunitensi, per sostenere il primo mercato estero americano e evitare le sirene del petro-rublo e dello switch verso l’euro dei maggiori produttori Opec, che hanno tutto l’interesse a giocare il dollaro contro la divisa europea per diminuire i costi dell’Us dollar e espandere il mercato Ue dei loro prodotti, e per investire poi direttamente i loro petro-euro nelle economie della “Old Europe”. Se un paese, come potrebbe essere l’Iran, per esempio, in futuro, dovesse uscire dall’area del petrodollaro, gli USA potrebbero o: – far rientrare i dollari nel sistema petrolifero facendo aumentare i prezzi del barile – generare più bonds da parte del Tesoro. – premere sulle esportazioni. Se questo non accadrà, o non avverrà in misura sufficiente, allora gli Usa troveranno il modo di esportare direttamente la loro inflazione in Ue, come accadde all’inizio degli anni ’70. Dal dicembre 2008 fino alla fine del 2011, il debito Usa è aumentato da 10,7 trilioni di Usd a 15,4 trilioni, per effetto del “quantitative easing”, lo stampaggio di carta moneta. Solo 2,9 trilioni di questa differenza sono stati comunque trovati sul mercato, ovvero prestati dagli investitori, mentre proprio 1,6 trilioni sono stati “sostenuti” direttamente dalla Federal Reserve .mentre gli investitori americani detengono già 6,4 trilioni di Usd di titoli del debito Usa, con un “punto di caduta”, ovvero di aumento dell’incertezza del debito che, oggi, è situato intorno ai 9,5 trilioni di Usd. È quindi da prevedere che Washington farà tutto il Qe (Quantitative easing) disponibile per poi venderlo, soprattutto nel mercato secondario, agli investitori globali, “seccando” le possibili radici dalle quali poteva trar linfa il mercato finanziario europeo. Per quanto riguarda la strategia commerciale Usa, che è strettamente collegata a quella finanziaria, Obama vuole raddoppiare l’export americano entro il 2014, terminare il Trade Agreement con la Cina, per tutelare soprattutto la proprietà intellettuale, e questo significa che maggiori quantità di brevetti a medio-alto livello di tecnologia saranno trasferiti verso l'”Impero di Mezzo”. Ma Obama intende operare un Fta (Free trade agreement) anche con la Ue, per aprire ulteriormente il mercato Usa ai prodotti e ai servizi europei, già fortemente diffusi, ma con caratteristiche che si adattino in modo più immediato alle “regulations” del mercato interno nordamericano . Ma, per gli Usa di Obama, anche sul piano degli accordi commerciali vale il multilateralismo, soprattutto dopo il sostanziale fallimento del Doha Round del Wto . In sostanza, una America più aggressiva sui mercati internazionali, anche su quelli dell’energia, con una espansione delle energie rinnovabili e delle fonti non-petrolifere, anche in relazione alla espansione produttiva nel settore oil del Canada, che autonomizza gli Usa verso la questione mediorientale , e una America che tenderà ad un accordo forte e talvolta limitante verso l’Ue, in funzione del suo rinnovato sviluppo interno.
Il futuro dell´Occidente nell´Obama bis
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