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Il Manifesto (molto renziano) di Pietro Ichino

Se chiedete conto di questi risultati a uno qualsiasi dei dirigenti della nostra sinistra, potete stare sicuri che vi risponderà: “Ma noi non ne siamo responsabili, perché siamo stati al governo complessivamente per poco tempo e solo per periodi brevissimi”. Non si rendono conto che anche questo dato concorre al bilancio fallimentare della stessa sinistra: perché tanta difficoltà a raccogliere il consenso della gente? Non sarà, per caso, che proprio la parte più povera del Paese a 60 anni dalla Liberazione non si è ancora convinta della nostra capacità di fare davvero i suoi interessi?

Se chi ha guidato la sinistra italiana per questi 60 anni, dal Pci al Pds ai Ds, fino al Pd di oggi, si ponesse questa domanda con un minimo di umiltà – che in politica si chiama capacità di autocritica – e quindi cercasse davvero risposte vere e credibili, forse si accorgerebbe che i più deboli e i più poveri non votano più a sinistra da molto tempo, che sei operai italiani su dieci che votano scelgono partiti di destra o di centro, che le roccheforti elettorali della sinistra non sono tra i precari, ma nell´impiego pubblico e tra i pensionati; non tra i più giovani, ma tra i più vecchi; non tra chi rischia di più, ma tra chi rischia di meno.

Non potrebbe essere diversamente; perché da anni ormai questa sinistra, a ben vedere, al di là delle grandi enunciazioni astratte pratica soprattutto una parola d´ordine: “difendere”, e se si va a vedere da vicino si constata che è sempre un difendere l´esistente. Difendere prioritariamente i diritti esistenti – anche se sono piccole rendite – senza chiedersi mai se questo renderà più facile o più difficile l´accesso a quegli stessi diritti da parte di chi ne è escluso. Ma difendere anche vecchie norme, vecchie strutture amministrative, vecchie strutture produttive, vecchi posti di lavoro regolari; mai una volta che, in concreto, venga messa al primo posto per davvero la costruzione delle pari opportunità, cioè l´interesse di chi da quei diritti, da quel tessuto produttivo è permanentemente escluso.

Questa è la sinistra che negli anni ´70 difendeva a spada tratta il modello esclusivo del lavoro a tempo pieno opponendosi al riconoscimento del part-time; che negli anni ´80 e ´90 difendeva come un baluardo fondamentale di civiltà il monopolio statale dei servizi di collocamento (come se in questo campo il discrimine tra buono e cattivo fosse quello che passa tra pubblico e privato, e non quello che passa tra servizio efficiente fornito alla luce del sole e servizio inefficiente o fornito clandestinamente); la sinistra che fino al giugno 2011 ha difeso come chiave di volta irrinunciabile per la protezione dei diritti fondamentali dei lavoratori la regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale da parte del contratto aziendale (salvo cambiare idea nel giugno dell´anno scorso, dieci anni dopo rispetto alla sinistra tedesca e a quella svedese, senza chiedere scusa per il ritardo); la sinistra che fino al luglio scorso ha difeso fino alla morte il vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come garanzia irrinunciabile della dignità e libertà dei lavoratori.

Ma non abbastanza irrinunciabile perché quella stessa sinistra si preoccupasse di una metà abbondante dei lavoratori dipendenti italiani che ne era permanentemente esclusa; e negli ultimi tre decenni la quota di lavoratori protetti sul totale era andata costantemente riducendosi.   È la stessa sinistra che di fronte a qualsiasi crisi aziendale si schiera sempre, a priori, inflessibilmente, non in difesa della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, ma in difesa della conservazione delle strutture esistenti, incurante del fatto che conservare sistematicamente strutture obsolete e rapporti di lavoro ormai poco o per nulla produttivi ha necessariamente un effetto depressivo sulle retribuzioni.

È la sinistra che ha difeso fino allo stremo il diritto della mia generazione di andare in pensione a cinquant´anni o anche prima, pur essendo perfettamente consapevole della insostenibilità di quel regime, che infatti è stato debitamente riformato già nel 1995, ma solo per le nuove generazioni. E che, più in generale ha considerato perfettamente “di sinistra” (pardon: keynesiano), per finanziare le pensioni della mia generazione, prendere a prestito per un quarto di secolo l´equivalente di 30 miliardi l´anno, lasciando il debito da ripagare a figli e nipoti.

Per aprirci agli investimenti stranieri, certo, non basta semplificare il nostro sistema delle relazioni industriali e allinearlo rispetto ai migliori standard europei. Occorre anche migliorare le nostre infrastrutture, tra le quali metterei anche il nostro senso civico diffuso, quella civicness della quale noi italiani difettiamo rispetto agli altri popoli del centro e nord-Europa; e migliorare molto le nostre amministrazioni pubbliche, incominciando da quella della giustizia.

Anche questo è un capitolo del programma di Matteo Renzi che nasce da anni di osservazioni comparatistiche, di studi e di elaborazioni: vogliamo amministrazioni organizzate prioritariamente in funzione degli interessi degli utenti, e non – come accade oggi – in funzione degli interessi dei propri addetti.

Amministrazioni i cui dirigenti vengano ingaggiati in funzione del raggiungimento di obiettivi precisi, specifici, misurabili, collegati a scadenze temporali ben definite; e vengano immediatamente valutati in relazione al raggiungimento o no di quegli obiettivi, controllabile immediatamente on line da tutta la cittadinanza. Amministrazioni sottoposte in modo capillare al controllo immediato della cittadinanza su ciascun loro atto, anche quello di minimo rilievo, mediante l´applicazione rigorosa del principio della full disclosure, della trasparenza totale, cioè dell´accessibilità in rete di ogni atto e ogni documento, anche di uso soltanto interno, di ciascun ufficio.

Come da tempo si fa in Svezia, in Gran Bretagna e negli U.S.A. sulla base dei Freedom of Information Acts.   Anche su questo terreno si misurerà la nuova sinistra che vogliamo costruire: sulla sua capacità di perseguire, attraverso l´efficienza e la trasparenza delle amministrazioni, l´interesse dell´ultimo dei cittadini, del più debole, più e prima rispetto all´interesse, pur legittimo, degli addetti alle amministrazioni stesse. Con la piena consapevolezza che i primi a soffrire dell´inefficienza di queste sono i più poveri e i più deboli. Queste sono le sfide che ci attendono. Buon lavoro a tutti noi. E buona fortuna, Italia!   Il testo integrale dell´intervento si può leggere qui  

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