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Un’istruzione alla coreana per l’Italia

Mi sveglio e mi ritrovo sulla mail due cari colleghi che mi chiedono di leggere questo articolo sul web del Sole 24 Ore.

Lo dedico a Mario Monti che, come ricorderete, ha chiesto pochi giorni fa che il 2013 diventasse l’anno del capitale umano, dell’istruzione.

L’articolo parla di due piccoli Paesi, Finlandia e Corea del Sud, che non nel 2013 ma da almeno un decennio hanno rivoluzionato il loro modo di fare istruzione.

Prendete la Corea del Sud per esempio. L’articolo contiene un errore, credo: che la Corea del Sud spenda il 15% del suo Pil in istruzione, in realtà 15% è l’ammontare di spesa pubblica per istruzione sul totale della spesa pubblica, comunque abbondantemente superiore alla media del 13% dell’Ocse. A ciò va tuttavia poi aggiunto l’incredibile 40% di spesa privata sul totale di spesa per l’istruzione.

Ebbene la Corea, che nel 1997 aveva il 38% di popolazione tra i 25 e 64 anni senza diploma, al 2010 aveva ridotto questa percentuale al 20%. Allo stesso tempo che la quota dei laureati tra 30-35enni, oggi al 20% in Italia, è del 60% in Corea.

Già i laureati. Cresciuti in maniera esponenziale. In Corea. Cosa ci vuole per far crescere il numero di laureati? Qualità e quantità. Risorse e … già, lo so che lo sapete.

Tanti tanti atenei. Molti di più di quelli di oggi. Come chiederemo nel programma dei Viaggiatori in Movimento. Come abbiamo scritto da tempo su questo blog.

Senza sapere, fino ad oggi, che qualcun altro l’aveva detto prima di noi. Incredibile. Un qualcuno che Monti ha confessato considerare “l’italiano che ha ammirato più di tutti”. Un qualcuno spesso citato da tanti (compreso il sottoscritto) per nobilitare il proprio pensiero. Nientepopodimenoche. Leggete. Legga Monti. E si dia per favore da fare per il 2013. Almeno per il 2013. La lasci, una traccia, una traccia, Presidente, che resti.

“Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.”

Sintesi di un commento più ampio che si può leggere qui.

 

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