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I Beni Culturali sono malati. Di vecchiaia

“Credo che probabilmente non scriverò più romanzi, sono troppo vecchia. … Ho visto casi abbastanza tristi di scrittori il cui ultimo romanzo non valeva molto. Sono ancora in grado di capire se quel che scrivo è buono o no … ”. Con queste parole, recentemente, Nadine Gordimer, settantanovenne sudafricana, vincitrice nel 1991 del premio Nobel per la letteratura, rispondeva ad un intervistatore che le chiedeva quale sarebbe stato il suo prossimo romanzo. A suo dire non le era più possibile impegnare quell’energia e quella concentrazione necessaria a pensare prima e a scrivere dopo un nuovo libro.

La creazione, l’intuizione che dà avvio ad un’espressione artistica, è faccenda che riguarda la sfera cerebrale ma anche la fisicità. Proprio per questo il dato anagrafico ad un certo punto può trasformarsi in una barriera invalicabile. Le diverse attività che possono ricondursi alla galassia dei Beni Culturali sono un affare nel quale l’età non è un elemento trascurabile. A giocare la partita che decreta il successo o l’anonimato, un’esistenza non soltanto professionale incerta o solidamente fondata su apprezzati riconoscimenti, sono due schiere contrapposte. Di certo fino ad almeno due generazioni fa. Da un lato i giovani, ambiziosamente protesi a costruire la propria affermazione. Dall’altro quelli che giovani lo sono stati e che provano a difendere il proprio stato. In quella dinamica contrapposizione, a definire gli esiti, spesso, anche se non sempre, erano le qualità, le competenze, le capacità. Gli spazi per emergere, per farsi largo, erano sufficienti per non disperdere il capitale umano esistente.  A lungo l’età di mezzo il periodo più fertile. Come ha confermato di recente Mind the mapp, in poche parole “occhio alla mappa”. La recente mostra che al Transport Museum di Londra, aiuta a scoprire i segreti fili che legano l’arte e il design alla cartografia antica e all’infografica contemporanea. La rappresentazione, lungo un asse temporale di otto secoli, tenendo conto delle principali correnti artistiche, dei novanta pittori ritenuti i più significativi della storia dell’arte. Tra gli elementi desumibili, ne spicca uno. Il successo attraverso l’opera o le opere più significative, arriva in media tra i 41 e i 45 anni. Questo dato a lungo confermato da una ricca casistica, poi, pian piano, ha perso valore, le differenze si sono assottigliate. Al punto che ormai “giovane” e “vecchio” si sono trasformate in definizioni quasi esclusivamente anagrafiche, senza alcun possibilità di riferimento all’affermazione, al raggiungimento degli obiettivi fissati.

Nel comparto dei Beni Culturali, non meno che in altri settori, anzi forse di più, l’età media di quanti risultano avere una posizione definita nella macchina statale è in crescita. Risultato dell’ormai ridottissimo inserimento di nuove forze. Università, Soprintendenze, sia architettoniche, che archeologiche, archivi dimostrano che l’esiguità di risorse si avvia a farle morire. Per mancanza di nuovo personale e per la presenza, in molti casi, di funzionari e semplici impiegati, ormai fiaccati da lunghe e faticose stagioni contrassegnate da una sola crescita. Quella delle incombenze burocratiche. Un problema tutt’altro che nuovo, ma che continua a soffocare i nostri Beni più preziosi.

Alcune settimane fa Giuseppe Galasso dalle pagine del Corriere della Sera, sottolineava un problema, non minore. Quello dell’età media del personale di servizio. In particolare focalizzava la sua attenzione sugli Archivi. Dove è dagli anni Ottanta che non vengono espletati concorsi. Con il risultato che si calcola che oggi in tutte le categorie l’età media sfiori i sessant’anni. Le conseguenze di ciò non si avvertono ancora perché sono tuttora attivi gli effetti della legge 285 del 1977 per l’incremento dell’occupazione giovanile. L’applicazione della legge portò ad una lunga fase di gonfiamento degli organici, che in alcuni luoghi e per qualche verso poteva essere perfino patologica. Oggi la situazione va rapidamente mutando di segno. Il personale in servizio, non ricambiato con i decisi apporti dei concorsi periodici, appartiene a un arco ristretto di classi di età. Quelle, perlopiù della prima metà degli anni Cinquanta. Supera quindi la media anagrafica dei 60 anni e da oggi al 2018 andrà quasi tutto in pensione.

Il problema non riguarda, sfortunatamente, solo gli archivi, ma l’intero comparto dei Beni Culturali. E comunque il problema non è solo di numeri. Il personale più anziano conosce luoghi, cose, materiali, tecniche e prassi degli istituti. In un ricambio graduale e costante esso trasmette questo patrimonio di conoscenze ai più giovani e inesperti colleghi in arrivo. L’esperienza e le abilità dei vecchi passano, anche se in maniera imperfetta, ai loro nuovi colleghi. Si assicura così agli istituti una continuità preziosa e non surrogabile.

Essendo venuto meno questo processo  virtuoso, è evidente, che l’intero apparato ha cominciato a risentirne. In maniera sempre più profonda. Così i nostri Beni Culturali sembrano destinati all’immobilismo distruttivo. A rimanere soffocati dall’assenza di cure. Forse per un malinteso di fondo. Che per il nostro patrimonio del passato, anche recente, non serva poi molto. Anzi niente. Insomma, avanti così, ad esaurimento.

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