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La real politik di Maroni

L’accordo sulla via di Damasco tra Pdl e Lega a una attenta analisi non deve stupire più di tanto.

Roberto Maroni per tutto il tempo del patriarcato Bossi, ovvero sin dalle origini del movimento leghista, dei due è sempre stato quello più pragmatico, meno ideologico, più incline a negoziati, compromessi e “politicismi”. Basta ripercorrere gli snodi cruciali del ’95 e del 2005 per ricordare come l’attuale segretario lumbard abbia di volta in volta suggerito, e per certi versi, tessuto, accordi tattici diversi da quelli poi decisi sulla base di spinte ideali dal fondatore e nume tutelare di Gemonio.

Da ricordare un’intervista a Repubblica in cui lo stesso Maroni auspicava alla vigilia delle elezioni del 2006 un dialogo con la coalizione di Romano Prodi sulla base di una negoziazione in materia di federalismo e riforme istituzionali.

Del resto, sin dalla sua origine e in tutti gli anni del suo sviluppo, la Lega ha perseguito, coerentemente con l’articolo 1 del proprio Statuto, che vincola la sopravvivenza stessa del movimento al raggiungimento dell’autonomia dei popoli del Nord, l’obiettivo della riforma dello Stato in senso federale. La missione strategica federalista del Carroccio, quindi, è sempre stata concepita come un totem cui sacrificare tattiche contingenti e a volte apparentemente in contraddizione tra loro. Bossi ha da sempre tinteggiato la coloritura ideale, mitologica ricorrendo alla “cornucopia” della Padania felix, Maroni ha invece giocato le carte dell’autonomia sul tavolo della politica.

“Tu hai un partito organizzato, ma io ho delle tribù”. soleva schernirsi il Senatur quando a destra e sinistra gli venivano offerte sponde tattiche di ogni tipo, magari commissionate dallo stesso Senatur al fido sherpa Maroni. Tuttavia è indiscutibile che attraverso la dimensione utopica, fortemente simbolica e rituale Bossi nella storia leghista ha saldato il suo movimento coltivando  il duplice intento di rafforzarne l’identità e, contestualmente, di tenere al centro del dibattito politico la mistica dell’autonomia del Nord, approdo imprescindibile verso una forma nuova di organizzazione dello Stato. Adesso deposto l’antico profeta guerriero e con lui il suo sacrario ideale le tribù si trovano guidate dal “tattico” Maroni che archiviata la fase identitaria-tribale prova a normalizzare il movimento volendolo fare approdare alla sostanza della “comunità di interessi”, al core business della redistribuzione territoriale del gettito.

Che poi rilanciando il messaggio della macro regione del Nord come soggetto pragmaticamente istituzionale e finanziario, che si affranca dal mito escatologico della Padania, Maroni non innova ma rivisita. “Questa è sempre stata la posizione della Lega”. Lo diceva Gianfranco Miglio tanti anni fa. Il nostro obiettivo è il federalismo. “È la nostra missione. La Lega esiste per questo motivo, non per altro. Quindi, come avviene in tutte le zone del mondo per tutti i partiti federalisti, se c’è la possibilità di raggiungere lo scopo senza allearsi con nessuno bene, altrimenti ci si allea”.

Per questo Miglio nel ’92 nel momento di sua maggiore influenza nella cabina di regia del Carroccio fu anche candidato alla Presidenza della Repubblica. Perché l’Italia facesse i conti con il Nord al netto dei caricaturali miti celtici. Nella cerchia più stretta dell’attuale segretario (leggi Tosi) del resto si sa che “la Padania non esiste, non è mai esistita. Non è una nazione né un popolo né una Lingua e nemmeno un’espressione geografica. Al massimo una comunità d’interessi, peraltro in concorrenza, calata nella realtà di un crogiuolo di storie diverse e di tribù litigiose”. Per questo oggi Maroni sceglie la Lombardia e manda in pensione la Padania.

In un Nord stravolto dalla crisi e molto cambiato da quello dove nacque l’immaginario collettivo della Padania, ancorché disilluso dagli scandali che hanno sfregiato la “diversità ideale” della Lega dura e pura, il progetto del pragmatico ex ministro degli Interni è proprio questo: tornare al più presto ad aprirsi spazio di manovra tattica e di influenza strategica, con la destra o con la sinistra o col centro o anche con gli odiati tecnici, sventolando il vessillo del federalismo e dell’autonomia fiscale ancora tutto da realizzare.

Per il Carroccio la residuale riproposizione dell’alleanza con il Cavaliere non è dunque lo scopo, bensì uno dei possibili mezzi per far si che riposte le scope nell’armadio dei lumbard rispuntino gli appunti machiavellicamente intrisi di real politik Non è molto originale, ma almeno è razionale. E a pensarci bene anche molto arcitaliano.

Filippo Salone

Classe ’81. Siciliano verace ma studioso della Lega Nord sulla quale nel 2009 ha pubblicato un saggio per Rubettino (“Il fenomeno leghista perché nasce perché si afferma”). E’ tra i soci fondatori dell’Associazione ITALIA CAMP in cui coordina l’area Ambiente e Energia e segue come redattore il progetto “wethink”.

Twitter @filipposalone


 



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