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Non solo Napolitano. I discorsi dei presidenti della Repubblica

E’ un’Europa che anche al vertice massimo delle sue istituzioni democratiche sente la necessità di sottolineare la dimensione umana della fine di un anno difficilissimo per tante famiglie ed imprese. Eppure, anche qui, non è possibile non constatare, assieme a sensibilità retoriche simili sulla crisi, modelli di ragionamento economici e reazioni istituzionali agli antipodi all’interno dello stesso continente.

In Italia il Presidente Napolitano si mostra sensibile al dramma causato dalla recessione:

“Da noi la crisi generale, ancora nel 2012, si è tradotta in crisi di aziende medie e grandi (e talvolta, dell’economia di un’intera regione, come ho constatato da vicino in Sardegna), si è tradotta in cancellazione di piccole imprese e di posti di lavoro, in aumento della Cassa Integrazione e della disoccupazione, in ulteriore aggravamento della difficoltà a trovare lavoro per chi l’ha perduto e per i giovani che lo cercano. Per effetto di tutto ciò, e per il peso delle imposte da pagare, per l’aumento del costo di beni primari e servizi essenziali, “è aumentata l’incidenza della povertà tra le famiglie” – ci dice l’Istituto Nazionale di Statistica – specie “quelle in cui convivono più generazioni…. Complessivamente sono quasi due milioni i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud”.Ricevo d’altronde lettere da persone che mi dicono dell’impossibilità di vivere con una pensione minima dell’INPS, o del calvario della vana ricerca di un lavoro se ci si ritrova disoccupato a 40 anni.”

Ben vengano queste parole. Dovrebbe spettare al Governo combattere questi drammi. Ma come? Anche il Presidente Napolitano pare trappola purtroppo della fallacia logica del paradigma dell’austerità quando dice che, malgrado quanto detto sopra:

“…Ciò non significa, naturalmente, ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire – oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale – per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale. Scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici, per una parte di essi certamente pesanti, e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione. Ma nessuno può negare quella necessità : è toccato anche a me ribadirlo molte volte. Guai se non si fosse compiuto lo sforzo che abbiamo in tempi recenti più decisamente affrontato : pagare gli interessi sul nostro debito pubblico ci costa attualmente – attenzione a questa cifra – più di 85 miliardi di euro all’anno, e se questo enorme costo potrà nel 2013 e nel 2014 non aumentare ma diminuire, è grazie alla volontà seria dimostrata di portare in pareggio il rapporto tra entrate e spese dello Stato, e di abbattere decisamente l’indebitamento. C’è stato cioè un ritorno di fiducia nell’Italia, hanno avuto successo le nuove emissioni di Buoni del Tesoro, si è ridotto il famoso “spread” che da qualche anno è entrato nelle nostre preoccupazioni quotidiane.”

Non è così. Non è così non solo perché, formalmente, la spesa per interessi continuerà – ultime stime Ministero Economia e Finanza – a crescere contabilmente dagli 85 miliardi a cui fa riferimento il nostro Presidente ai 105 miliardi del 2015 previsti nella Nota di aggiornamento dal Documento di Economia e Finanza di settembre 2012 (a proposito in aprile 2012, solo 6 mesi prima, la stima per il 2015 era di 99 miliardi). In termini di PIL al 5,5% al 6,3%. Non è così perché, nella sostanza, il nostro debito su PIL, a causa dell’austerità che abbiamo voluto e saputo generare, salirà a livelli mai visti, livelli così alti soltanto nell’anteguerra, grazie alla recessione ed al conseguente deficit di bilancio.

Un altro Presidente della Repubblica, quello portoghese, Aníbal Cavaco Silva, si è rivelato altrettanto attento ai danni della recessione del nostro Presidente. Ha però potuto fare di più, sulla base anche di una visione diversa delle dinamiche generate dall’austerità. Annunciandolo, a sorpresa, nel suo discorso di fine anno.

Ha ritenuto che la manovra di bilancio austera e recessiva da poco approvata sotto la spinta dell’Europa e del Fondo Monetario Internazionale trattasse “ingiustamente” i cittadini e che avesse “colpito alcuni peggio di altri”. E dunque, ed è la sola seconda volta nella storia del Paese, ha  deciso che invierà la manovra di bilancio alla Corte Costituzionale per una valutazione.

“Di mia iniziativa, la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sulla conformità del bilancio 2013 con la Costituzione della Repubblica”, ha affermato.

Ha anche aggiunto, sempre pare nel suo discorso di fine anno, che il paese era inviluppato in un circolo vizioso di austerità e recessione. Ma del Portogallo ci occuperemo meglio, spero, domani.

Oggi a noi economisti italiani che guardiamo al 2012, rimane da prendere atto di una sconfitta. Non siamo riusciti, con la nostra retorica ed il nostro argomentare, a cambiare, in un anno di critica costruttiva, il linguaggio economico del Paese così da comprendere la realtà che ci circonda, a creare nel Paese gli anticorpi affinché si riconoscessero col loro vero volto la malattia dell’austerità ed i suoi nefasti effetti: sofferenza ma anche instabilità dei conti pubblici e minaccia alla sopravvivenza dell’euro e dunque dell’Europa.

Avremmo, se ci fossimo riusciti, insegnato a comprenderla  questa austerità.

A rifiutarla.

A isolarla.

A superarla con l’unica arma a cui è dato questo onere ed onore: la politica.


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