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Le elezioni? Sarà comunque un brusco risveglio

Ancora poche ore e poi, finalmente, il circo elettorale che ha offerto il più brutto spettacolo della storia della Repubblica, chiuderà i battenti. Ma il dopo non sarà tanto meglio: da un lato raccoglieremo sul terreno della politica ciò che è stato seminato, e comunque vadano a finire le elezioni, non saranno buoni frutti; dall’altro, saremo costretti a tornare alla dura, anzi durissima, realtà di un’economia che sta vivendo il quarto anno (quasi consecutivo) di recessione dopo averne vissuti 15 di stagnazione, e per di più in un contesto europeo dove si è riusciti (grazie alla Bce) a salvare l’euro ma non a trovare la via dell’integrazione e la giusta politica tra risanamento finanziario e sviluppo.

Partiamo dalla politica. Per esperienza sappiamo che non è mai bene fidarsi delle voci che si scatenano nelle ultime ore prima del voto, dunque ci asteniamo dal fare pronostici. Ciò non ci impedisce, però, di anticipare il vero e sicuro vincitore delle elezioni: il cittadino arrabbiato. Tra astensione, schede bianche e nulle e voto a Grillo, si tratterà di circa la metà degli aventi diritto, e nessun partito potrà neanche lontanamente avvicinarsi ad una soglia del genere. Anzi, tutti gli altri si divideranno la restante metà, per cui il vincitore alla Camera (che c’è per forza di legge, mentre al Senato no, tant’è vero che è assai probabile che non ci sarà) in realtà rappresenterà non più di un quarto degli italiani.

D’altra parte, basta vedere come fotografa i nostri quattro principali candidati il più quotato settimanale tedesco, Der Spiegel, per mano di Wolfgang Munchau, columnist del Financial Times noto per essere critico con l’Italia ma anche con Angela Merkel: “un clown, un miliardario condannato in prima istanza per evasione fiscale, un uomo d’apparato di sinistra che non capisce niente di economia ed un professore di economia conservatore, che di politica non capisce nulla”. Come dargli torto? E come non cogliere riflesso nel suo giudizio di impotenza che attribuisce al nostro sistema politico – “in queste elezioni si decide il futuro dell’euro, la prospettiva migliore sarebbe un pareggio, con la conseguente formazione di una grande coalizione, che ha maggiori probabilità di fare le riforme” – quello della comunità internazionale, mercati e cancellerie?

Dunque, se davvero lunedì sera dovremo constatare che chi vince alla Camera non ha in mano anche il Senato, fin d’ora si può dire che l’Italia avrà davanti due possibilità: o l’opzione greca, cioè quella di tornare a votare subito – a maggio, con tutto ciò che questo significa anche per la nomina del nuovo Presidente della Repubblica – o la grande coalizione, che a sua volta può declinarsi in un accordo Bersani-Monti se i numeri del Senato lo consentono, oppure in un accordo a tre, con la complicazione però di dover fare i conti con Berlusconi. Comunque vada, saranno dolori. Ma bisognerà in tutti i modi evitare l’empasse: la nostra economia non se lo può permettere.

Il consuntivo dell’orribile 2012, infatti, è drammatico: abbiamo perso 2,2 punti di Pil, il fatturato dell’industria è sceso del 4,4% e gli ordini si sono contratti del 9,8%, mentre solo nell’ultimo bimestre sono andati perduti 186 mila posti di lavoro, che si aggiungono ai 600 mila bruciati in precedenza. Di conseguenza le vendite al dettaglio sono scese di un ulteriore 2,2%, il calo peggiore dal 1995. Dei cinque anni che ci separano dall’inizio della grande crisi finanziaria mondiale (2008-2012), tre sono stati di recessione, che ci hanno sottratto ben sette punti e mezzo di ricchezza, in soldoni circa 120 miliardi. Ma anche il 2013, a causa della bassa domanda interna e a giudicare dagli ordinativi, rischia di andare ancora male. Già siamo partiti con un già acquisito -1% di Pil, cosa che ha spinto la Ue a peggiorare le stime 2013 (da mezzo a un punto di perdita di Pil), anche perché nel secondo semestre sarà difficile recuperare considerato che le imprese hanno ordini nei cassetti che su base tendenziale viaggiano a -15%, il dato peggiore da ottobre 2009 (dato che deriva dalla somma algebrica tra il -21,4% del mercato interno e il -6% degli ordini dall’estero).

Non è un caso, dunque, che la Confindustria parli di “quadro di estrema debolezza e fragilità”, condizionato dalla fiducia delle famiglie precipitata al minimo storico. I consumi non ripartono, come dimostra il nuovo crollo delle vendite di auto in gennaio. La redditività delle imprese continua a diminuire, anche per effetto di un accentuato aumento delle materie prime e per il livello eccessivo del cambio dell’euro. Il credito è tornato ad essere rarefatto per il rinnovato timore delle banche circa la solvibilità della clientela, a sua volta condizionata da un’intollerabile mancanza di liquidità cui contribuiscono le amministrazioni pubbliche che continuano a non pagare i fornitori.

Se questa è la cruda ma veritiera rappresentazione della realtà, sintetizzabile con la definizione “declino strutturale”, la cosa che salta agli occhi è la siderale distanza che separa la politica da questa realtà. Qui non si tratta di ricette sbagliate – che pure non mancano, da quella pericolosamente facile che predica l’uscita dell’Italia dall’euro a quella populista del giù le tasse per tutti (senza dire dove si taglia), passando per il “piano per il lavoro” della Cgil, serio ma ugualmente impraticabile se non vogliamo farci di nuovo strozzare dagli spread – ma di diagnosi totalmente sbagliate. Infatti, tutta la kermesse elettorale, ma a ben vedere anche la disputa dei mesi precedenti, è stata caratterizzata da una sola parola d’ordine: restituire i soldi agli italiani. Che non è proprio l’approccio più realista e utile, anche per chi come me noi ha a cuore la crescita non meno dell’austerità.

Tutti, persino Monti, si sono prestati a questo gioco di promesse crescenti, peraltro inutile perché agli occhi degli italiani la politica delle lusinghe ha più ben poca credibilità (come, temiamo, si vedrà lunedì a voto terminato).

Se a questo si aggiunge la crescente possibilità che dalle urne non emerga un quadro di solida stabilità politica, ma al contrario di instabilità dovuta alla necessità di alleanze forzate, o addirittura di totale ingovernabilità, allora è inevitabile dedurre che il dopo-elezioni si presenti come foriero di guai. Avremo bisogno di un’azione riformatrice di forte impatto, a cominciare da un intervento una-tantum sul debito mettendo in campo il patrimonio pubblico, che agli occhi dei partner europei rappresenti la garanzia delle nostre buone intenzioni e che, dunque, li induca ad essere tolleranti con noi sul deficit corrente per evitare manovre correttive e strette. Ma se di scelte radicali non ci fosse neppure l’ombra, per ragioni di fragilità del quadro politico emerso dalle elezioni, allora non solo assisteremmo ad una recrudescenza degli attacchi ai titoli del nostro debito da parte dei mercati finanziari, ma anche ad un insopportabile aumento delle pressioni degli altri membri del club della moneta unica.
Avevamo sperato, e continuiamo a sperare, che il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica avvenga in modo diverso da quello cruento che ha segnato la fine della Prima. L’occasione giusta erano proprio le elezioni che stiamo per fare, ma per responsabilità di tutti – dei bipolaristi non pentiti (Pd e Pdl) e degli anti-bipolaristi incapaci (Centro) – l’opportunità è andata perduta: siamo ancora nel pieno della Seconda Repubblica. Con il pericolo, però, che essendo un sistema ormai morto, il continuare a praticarlo produca danni immani. Ancora poche ore, e da martedì gli uomini di buona volontà (e di buona intelligenza) dovranno rimboccarsi le maniche. Noi ci saremo.


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