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Il Messico attraverso lo sguardo di Tina Modotti

È stata una delle più straordinarie muse del Novecento: a Genova Palazzo Ducale ospiterà, dal 16 marzo al 21 aprile, gli scatti di Tina Modotti, attrice, fotografa e musa di grandi poeti sudamericani. Una selezione di 26 immagini, scattate tra il 1923 e il 1927 soprattutto in Messico, paese di cui la fotografa e rivoluzionaria friulana del XX secolo coglie, tra documento e simbolo, particolari legati alla quotidianità osservata con uno sguardo innovativo. A poco a poco inizia ad elaborare un certo tipo di reportage fotografico, dal grande contenuto estetico nella forma e dal gran simbolismo ideologico nel suo referente. Ma la fotografia per Modotti non costituisce soltanto un modo di vita, ma anche l’impegno politico che la rende utile e legittima la sua emergente proiezione artistica.

In mostra accanto alle immagini di poveri, donne e bambini sono esposte fotografie note, come quelle di particolari di mani che lavorano, o i suoi ritratti. Tra gli altri, quelli di Edward Weston, il maggior fotografo americano dell’epoca, che l’amò e ne fece la sua musa, Vittorio Vidali e Julio Antonio Mella, dirigente studentesco cubano col quale convisse e che fu assassinato mentre passeggiavano mano nella mano.

Modotti fu una donna fuori dagli schemi, tanto che la qualità formale del suo lavoro si intreccia con il “personaggio”. Nata a Udine nel 1896 da una famiglia operaia aderente al socialismo di fine ottocento, sedicenne lascia l’Italia per raggiungere a Los Angeles il padre e la sorella. Lì comincia a frequentare i circoli culturali, il teatro e diviene modella e assistente di Edward Weston; con lui decide di trasferirsi in Messico, entrambi attratti dal fervore culturale del Paese. Viaggiano e fotografano moltissimo. La sua casa diventa il ritrovo dei più famosi artisti, Diego Rivera, Frida Kahlo, David Alvaro Siquieros sono solo tre dei nomi delle sue più assidue frequentazioni. Nel 1927 aderisce al Partito Comunista, continuando a frequentare in Messico l’estrema sinistra fino a che, dopo l’attentato al presidente Pascual Ortiz Rubio, è espulsa perché ritenuta sospetta e pericolosa.

Da quel momento vaga per l’Europa (Polonia, Francia, Russia) fino ad arrivare in Spagna, dove si iscrive al Soccorso Rosso Internazionale come infermiera nella Guerra Civile spagnola e, poco dopo, inizia a far uso dello pseudonimo Maria abbandonando la fotografia. Scrive in una lettera a Weston “non fotografo più, ho troppo lavoro da fare”. Mai più, però, ritroverà la “luce messicana” che aveva ispirato le sue migliori fotografie. Pubblicate da Creative Art negli Stati Uniti, dall’Agfa Paper di Praga, da Varietés a Bruxelles, dal British Journal of Photography a Londra, apriranno il cammino al reportage sociale che più avanti Robert Capa, David Seymour, Gerta Taro codificheranno come genere. Seymour inutilmente tenterà di convincere Tina a riprendere l’attività fotografica, per lei documentare le atrocità non è più sufficiente, la sua camera Graflex non bastava più ad aiutare i poveri della terra, servono nuovi strumenti, serve l’azione sul campo.

Fino a quando il nuovo presidente messicano, Lázaro Cárdenas del Río, non annulla la sua espulsione e la riammette di nuovo in Messico. Lì lavora per i rifugiati politici e incontra il piemontese Mario Montagnana, dell’associazione antifascista Garibaldi, a cui confesserà di volere rivedere Udine un’ultima volta, quasi presagendo vicina la morte.

Nella notte del 5 gennaio 1942, dopo una cena con amici a casa dell’architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore, dentro a un taxi che la sta riportando a casa.


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