Ormai sono passate già ventiquattro ore dalla comunicazione che Benedetto XVI ha deciso di fare nel concistoro ordinario di ieri della sua rinuncia al soglio di Pietro. E’ passato cioè soltanto un giorno e sembra già che la notizia sia stata, almeno superficialmente, metabolizzata dall’opinione pubblica.
Molti commenti sono già stati elaborati e messi a disposizione dei lettori di giornali, con ampie sfaccettature interpretative, se mi si passa l’espressione sibillina. Forse il quadro più interessante emerge dalla lettura di “Repubblica”, perché troviamo, con il consueto alto grado di qualità intellettuale, una splendida rappresentazione di una buona e di una cattiva lettura dell’evento.
Sicuramente l’articolo di Joaquin Navarro-Valls va nella direzione giusta, spiegando con grande cognizione di causa e aneddoti vissuti il significato reale della “difficile opzione” di Joseph Ratzinger. Ma, come accade sovente, più ancora del suo pezzo sono particolarmente interessanti le lezioni teologiche, praticamente concordi, che circondano la riflessione del ex portavoce della Santa Sede. Sto parlando della valutazione proposta da Eugenio Scalfari e Vito Mancuso.
Dei due, il più stimolante articolo è quello del fondatore del quotidiano. Egli si sofferma prevalentemente sulla portata storica della scelta del Papa, la quale andrebbe a cambiare il rapporto storicamente solidificato dalla tradizione tra l’autorità della Chiesa istituzionale e la funzione pastorale. La prima, secondo Scalfari, ha senso riguardo alla seconda, e la seconda è stata progressivamente sacrificata da un curialismo che ha immolato sull’altare del primato petrino ogni positiva tendenza alla collegialità e alla democratizzazione della cattolicità.
E’ curioso, ma quando bisogna essere democratici, cioè in politica, si rivendica il massimalismo; mentre quando bisogna essere fedeli a una rivelazione definitiva, come accade nelle cose religiose, si esorta la democrazia.
Una lettura convincente, comunque: peccato che sia totalmente fuorviante.
Proviamo a mettere ordine. E proviamo a farlo non chiamando in causa un ragionamento di fede, legato a quanto un credente ritiene essenziale per l’ortodossia, ad esempio il valore meramente soprannaturale della sua esistenza materiale e spirituale. No. Lasciamo stare tutto questo.
Guardiamo esclusivamente a come la Chiesa s’interpreta, e quindi a come vede e colloca le sue strutture istituzionali e pastorali nel consesso umano. Almeno questo si concederà. Capendo tale realtà, infatti, magari ci avvicineremo pure a sapere un po’ di più non che cosa Mancuso, Cacciari o Belpietro avrebbero voluto che avesse mosso la decisione di Ratzinger, ma quanto presumibilmente ha spinto lui stesso ad abbandonare la barca il 28 febbraio alle 20 e agire così.
Per prima cosa, la Chiesa, per definizione evangelica e apostolica, è un’autorità non derivata dalla storia ma funzionale alla comunità dei credenti, ossia costitutiva e fondativa del Popolo di Dio. Questo fatto la separa da ogni altro tipo di società religiosa esistente. Perciò i romani la perseguitavano nei primi secoli, e ovunque lo stesso succede oggi: perché il Papa, che ne è architrave, non risponde ad altri che a Dio.
Conviene ripetere. La sua autorità, che non è politica, deriva da Dio, e proprio per questo è in grado di riconoscere qualsiasi altra autorità politica che non ha la stessa origine.
Dunque, nel suo, ossia nelle cose di Dio, il Papa non risponde al potere, esercita un’autorità. Ma, evidentemente, non lo fa come persona regnante, bensì è l’ufficio che la persona regnante ricopre a tempo determinato che autorizza e legittima, imponendo doveri specifici in coscienza. Il limite temporale, infatti, di solito è la morte, ma, come si è visto, può essere pure la rinuncia appunto in coscienza, nelle condizioni prescritte dal Codice di Diritto Canonico.
Bene. La Chiesa è un’autorità divina, dunque, il cui perno è il Vicario di Cristo e la cui determinazione è la cosiddetta “romanitas”. Gregorio VII, nel Dictatus papae nel XI secolo, esprimeva questa trascendenza immanente dell’autorità petrina nel vescovo di Roma, così: “Ecclesia romana a solo Deo est fundata”. Il che significa che solo la Chiesa di Roma deriva da Dio; il resto della Chiesa deriva anch’esso da Dio, ma unicamente tramite la legittimità che il Papa trasmette. Altro che retaggio storico, caro Mancuso, è Matteo 16, 18: è il Vangelo che indica che il Fine della Salvezza passa attraverso la Funzione Sacra che il Papa svolge per l’umanità, le cosiddette Chiavi che Cristo ha affidato a Pietro, le quali, si ricorderà, sciolgono e legano in Terra le cose del Cielo: definizioni approfondite perfettamente da Leone I Magno e Gregorio I Magno, non da un commentatore di Formiche del XXI secolo.
Negli ambienti non cattolici, d’altra parte, sono talmente abituati all’ignoranza dei cattolici che pensano di raccontarci le cose come pare a loro, non come sono in sé.
Seconda osservazione. La Chiesa non è unicamente istituzione divina. E’ anche organizzazione umana, ossia una realtà sociale, un’“attrezzatura” che uomini legittimati, innanzi tutto, dal battesimo e poi dal sacerdozio hanno il compito di gestire. Qui subentra il bene e il male. Subentra cioè quel fenomeno che Scalfari chiama pastoralità, ma che io chiamerei invece potere, nel bene e nel male: ossia ambizioni, egoismi, voglia di emergere, eccetera eccetera, ma anche solidarietà, generosità sociale, cura dei poveri, sussidiaria donazione, eccetera eccetera.
Da queste lunghe premesse, tirerò una breve conclusione. Se la Chiesa, insomma, è al contempo istituzione divina e organizzazione umana, ecco che il farsi da parte, umile e grandiosamente coraggioso, di Benedetto XVI non è per nulla il passaggio dall’eternità alla storia, il venir meno del divino per l’umano, e il celebrarsi finale di una secolarizzazione del teologico, come avrebbe detto Carl Schmitt, tanto desiderata in certi ambienti. No. Men che meno è la vittoria del potere pastorale sull’autorità divina, come dice Mancuso. Tutt’altro.
Con questa sua decisione libera, davanti ad una Chiesa probabilmente dominata da situazioni che Nietzsche definirebbe “umane, troppo umane”, Ratzinger ha detto di no a se stesso, alla perpetrazione debole della propria impotenza; ha detto no a un sistema di potere e di governo che non va; dicendo di sì a Dio, all’autorità del Papa, alla sua indipendenza, alla sua libertà di dominare il potere con la forza legittima della sua intrinseca autorità.
Con tale atto, forse davanti a tante situazioni che in questi anni egli ha visto, conosciuto e toccato con mano nella loro gravità, l’uomo Ratzinger ha deciso di farsi da parte per qualcun altro che possa dopo di lui umanamente afferrare lo scettro divino, riaffermare il primato della Chiesa, della sua istituzione sull’organizzazione umana, della sua autorità sul potere, dando una scossa all’intera cristianità.
Mi si convinca del contrario, se non è così. D’altronde, il senso di questo mio discorso è semplice, forse perfino banale. Senza potere non si può contrastare lo strapotere del relativismo mondano ed ecclesiale. E il mondo presente ha bisogno proprio di questo: lottare contro la dissipazione. E nella Chiesa l’unico potere legittimo che può fare una cosa del genere non è l’abuso personalista delle cariche ma l’espressione forte e decisionale di governo del Vicario di Cristo, un primato spirituale che non ha bisogno di mezzi militari ed economici per vincere corruzione, ipocrisia e tiepidezza, ma solo di santità e della forza della fede.
In conclusione, nessuno sa che cosa farà e dove andrà Joseph Ratzinger, se in monastero e nella sua Monaco. Egli resta, tuttavia, un cardinale nella Chiesa, non uno sconfitto dalla vita; allo stesso modo che l’istituzione pontificia resta sempre la stessa, sopra la Chiesa e sopra i cardinali, a prescindere da tutto e tutti. Quello che è sicuro oggi, in fin dei conti, è solamente cosa il prossimo Papa potrà fare: riorganizzare la Chiesa con la sua permanente autorità suprema, unita alla forza del potere e del carisma personale di un fragile essere umano.
Benedetto Ippolito