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L’ambiguità europea sulla Turchia che s’islamizza

L’attentato terroristico del kamikaze che ha provocato due morti davanti all’Ambasciata Usa ad Ankara, scuote in modo profondo le coscienze di chi, da qualche lustro, scommetteva su una possibile entrata della Turchia nello spazio comune europeo.

Un percorso ipoteticamente lungo e tortuoso, ma, di fatto, nemmeno iniziato. Lo stesso ex premier Silvio Berlusconi aveva più volte perorato la causa turca, convinto della bontà dell’operazione probabilmente più dalla sua sbandierata amicizia con il Primo Ministro Tayyip Erdogan, che da concrete ragioni politiche. Nel tempo, tuttavia, si sono avvicendati molti sponsor del Paese della Mezzaluna, protagonista da qualche anno di una crescita a due cifre e territorio ideale per investimenti dal ritorno più che garantito.

Crescita demografica positiva, consumi in aumento, posizione geografica favorevole e stabilità politica sono i punti a favore della Repubblica turca. Obiettivi, questi, vanificati dal crescente proliferare di gruppi estremisti islamici di destra e sinistra, una vera e propria piaga forse mai combattuta con la durezza necessaria al caso.

Un’azione di contrasto che l’Unione Europea avrebbe dovuto e potuto pretendere da un leader islamico ma accorto come Erdogan, consapevole della grande posta in gioco per il futuro del suo Paese. Ankara resta uno degli alleati storici e fondamentali degli Usa e uno dei partner economici più importanti per gli stati occidentali e in particolare europei, ma da tempo sembra aver imboccato la strada di un’islamizzazione che frena il progredire dei negoziati su una sua maggiore integrazione in chiave continentale.

Le ragioni di questo stallo sono da ricercare, come spesso accade di recente, nell’insopportabile silenzio dell’Unione Europea, incapace di darsi e dare una politica estera unica che risponda alle esigenze di una potenza economica e geopolitica e non a quelle, tante e differenti, dei singoli stati che la compongono. Quanto a lungo potrà sopravvivere questa imbarazzante Europa a più voci, sempre meno autorevole sul piano politico, in un mondo che si polarizza e punta tutto sulla capacità di creare e intercettare i grandi “flussi” monetari e umani?

Una politica estera comune – e anche di difesa, come emerso nel recentissimo caso malese – è ormai una priorità irrinunciabile per un continente che rischia di veder diminuito il proprio peso specifico e rimanere ai margini dei tavoli che “contano” e che sembrano poter fare a meno di un’Europa frammentata e poco decisionista.

Un’Europa che, ora più che mai, potrebbe rimanere fuori dalla Storia e vivere un declino che la condanni all’isolamento economico e politico. Sarebbe un peccato grandissimo, tanto più perché evitabile: è giunto per ogni Stato il momento di mettere da parte le reciproche ambizioni e diffidenze e cedere il giusto pezzo della propria singola sovranità, per gettare le fondamenta di un edificio più grande, l’Unione Europea sognata dai suoi padri fondatori.

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