Le contorsioni del dibattito politico in vista della formazione del nuovo governo, a fronte della crescente precarietà degli assetti economico-sociali del Paese, alimentano ogni giorno di più una sensazione di generale irresponsabilità. Tre grandi “minoranze di blocco” che non riescono a costruire un’intesa che consenta la costituzione di un nuovo esecutivo investito della fiducia delle due camere. I veti incrociati e le supposte incompatibilità prevalgono sull’interesse prioritario dei cittadini italiani ad avere un governo nel pieno delle sue funzioni. Sentiamo invocare al riguardo ricette fantasiose e improbabili, come la prorogatio all’infinito di un governo dimissionario o l’insediamento di un nuovo governo di minoranza con scarse possibilità di trovare poi in Parlamento i numeri necessari per la fiducia, perché anche in queste condizioni il Parlamento potrebbe legiferare e adottare riforme.
E’ una nuova leggenda metropolitana, che, utilizzando il riferimento a quanto accaduto in tempi recenti nel Belgio (dopo le elezioni della primavera 2010 e fino a dicembre dell’anno successivo, oltre 500 giorni di “reggenza” di un governo dimissionario e poi di un altro “ad interim”, guidati dal cristiano democratico Leterme), sembra divenuta un comodo alibi per giustificare la permanenza di una condizione di stallo. Come se provvedimenti delicatissimi per correggere le politiche fiscali, selezionare gli investimenti per rilanciare l’economia, risolvere la scandalosa emergenza degli esodati, rivedere le rigidità della riforma del mercato del lavoro per arginare la crescente disoccupazione, tagliare i costi della politica, insieme alla spesa corrente della pubblica amministrazione, possano essere lasciati alla mera iniziativa di uno spontaneismo parlamentare e a convergenze casuali tra i gruppi o tra i singoli che si producano volta per volta. Si tratta di fragili utopie, in un regime parlamentare come il nostro l’attività legislativa spetta sì al Parlamento, ma viene svolta per antica consuetudine con la regia del governo e su prevalente iniziativa dello stesso.
In assenza di questa regia risulterebbe assai difficile assicurare armonia e coerenza a un processo di riforme che non sia ricondotto a una visione politica unitaria espressa da un esecutivo investito della fiducia di una maggioranza parlamentare. Un governo è sempre necessario, soprattutto in una condizione di precarietà finanziaria e produttiva, non calza il paragone con i nostri confratelli europei di Fiandra e Vallonia, noi ancora ci destreggiamo su un crinale troppo pericoloso, non possiamo vagheggiare avventure che comportino – nella prassi e non tramite una riforma organica – la sostanziale alterazione dei nostri equilibri costituzionali e della ripartizione dei poteri su cui questi sono fondati.
Per questa ragione, preso atto – ed era chiaro da un mese – che la coalizione che ha conquistato per un soffio la maggioranza relativa nelle elezioni di febbraio non è in condizione di ottenere i numeri parlamentari necessari per governare, non appaiono giustificate, né proporzionate alla gravità della congiuntura, le resistenze ad un governo di larghe intese che coinvolga le due maggiori coalizioni, dato che la terza forza, ossia il Movimento 5 Stelle, non appare disponibile, se non alla condizione di un suo ruolo dominante nel nuovo esecutivo, difficilmente accettabile dagli altri due contendenti che hanno preso comunque più voti.
Ma per un incontro tra i due soggetti tradizionali del confronto politico è necessaria la rimozione di quelle rigidità, quei pregiudizi, quelle barriere che hanno devastato e sostanzialmente paralizzato il confronto politico negli ultimi vent’anni, la contrapposizione personale, la sensazione perenne di una sfida incombente e decisiva che ha accompagnato la storia del bipolarismo italiano emerso dai rivolgimenti indotti da Mani Pulite e dai referendum elettorali (basta scorrere i titoli dei consueti libri di Natale puntualmente sfornati da Bruno Vespa nel ventennio in questione, per cogliere questo clima, Il Duello, La Sfida, Scontro finale, ecc.). Ma per quanto resteremo prigionieri della dicotomia berlusconismo-antiberlusconismo e delle prevenzioni direi quasi antropologiche che ci siamo creati in questi anni di scontro permanente ? E possiamo ancora consentirci questo, sul crinale della recessione, della crescita del debito, dell’ingovernabilità ? Non è forse vero che la Grande Coalizione, oltre che in altri paesi europei, di consolidata civiltà democratica, è stata in realtà già sperimentata anche da noi, per oltre un anno, con il governo Monti che, sia pure tra errori, carenze e contraddizioni, qualche riforma necessaria per contenere il dissesto è riuscito a vararla e ha potuto farlo giovandosi proprio del sostegno del Pd e del Pdl ?