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L’incarico a Bersani e la condanna degli ex Pci

Era il cruccio del Partito comunista italiano degli anni Ottanta: “Non andremo mai al governo”. E dire che anche allora loro si sentivano pronti; anzi i migliori, rodati dall’esperienza nelle amministrazioni locali rosse, che erano effettivamente governate meglio di altre. Le porte del potere locale si erano aperte nei Settanta, quando furono istituite le regioni, ma il portone di Palazzo Chigi è rimasto sbarrato agli ex Pci ancora per molti anni. 

Il primo politico italiano ex comunista a diventare presidente del Consiglio è stato Massimo D’Alema. Entrò a Palazzo Chigi il 21 ottobre del 1998, nascondendo a stento l’emozione (io c’ero, come si dice in questi casi). Secondo premier della tredicesima legislatura dopo Romano Prodi, che era stato eletto con ampia maggioranza e poi disarcionato senza troppi complimenti dagli ex alleati.

Il Lider Maximo non diventò capo del governo dopo un voto popolare, ma solo per un ribaltamento interno alla maggioranza. E quando cercò di trasformare le successive elezioni regionali in un referendum sul suo esecutivo e sulla sua persona, perse scommessa e poltrona. Per risollevare il centrosinistra dal disastro servì di nuovo Prodi.

A distanza di 15 anni, nel 2013, Pier Luigi Bersani ottiene un mandato dal capo dello Stato per formare un governo. Questa volta il voto c’è stato, ma non c’è la maggioranza. Il segretario del Pd, se sarà premier, sarà di minoranza.

Due episodi apparentemente slegati che rappresentano una casistica sufficiente a trarre un paio di conclusioni.

Prima conclusione: gli ex Pci quando entrano o anche solo di avvicinano alla Presidenza del Consiglio, non lo fanno mai spinti dal voto popolare.

Seconda: gli elettori del centrosinistra non vogliono un capo del governo che viene dal Pci. Chi viene da Botteghe Oscure non convince i moderati che non votano per il centrodestra.  Agli ex Dc, invece, riesce benissimo conquistare il voto della sinistra.

Ci riuscì Romano Prodi, e ci sarebbe riuscito Matteo Renzi.


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