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La strada impervia di Bersani

Nel settennato che si sta concludendo, Giorgio Napolitano è stato in grado di stupire anche chi lo conosceva bene. Lo abbiamo visto salire sul Colle sette anni fa appena ultimato il suo percorso dal migliorismo al socialismo europeo, e lo abbiamo visto gestire con maestria una delle fasi più crude della storia repubblicana.

Il meglio però è alla fine. La gestione del risultato elettorale del 2013 e poi l’incarico di ieri a Bersani sono stati governati ad arte. Anche se, ovviamente, la soluzione è lungi da essere già sul tavolo. D’altronde, la Costituzione assegna al capo dello Stato la nomina dell’esecutivo. E’ stato detto e scritto più volte anche dal sottoscritto. Ciò significa che la fiducia indispensabile delle Camere non è un presupposto ma una condizione indispensabile. Su questo passaggio sono state compiute, in passato, operazioni non proprio trasparenti, come il governo Tambroni o il ribaltone di Dini, ed esperimenti avventuristici, come il governo di non sfiducia di Andreotti.

Oggi la circostanza è più distesa, ma non meno articolata. Napolitano ha detto che “l’incarico a Bersani è il primo passa di un cammino”, un percorso che prevede paradossalmente un vincitore certo che non ha i numeri al Senato e dovrà andare perciò a raccattare la maggioranza uomo a uomo e donna a donna, secondo la celebre formula feudale adattata ai nostri tempi.

Per questa situazione zoppa, il presidente ha parlato prima dell’incaricato. E ha parlato bene, lucidamente, di una fase che è logorante anche sul piano psicologico. Il risultato attuale, mentre inizia questo sabato da leoni, è ancora apertissimo allo scandaglio del leader PD. Egli è, ad avviso di chi scrive, nella situazione più penosa. Il sogno che ha ambito con la sua segreteria e con un’intera vita da militante è arrivato a compimento, ma non ci sono le condizioni per avverarlo. L’utopia concreta è resa difficile da una beffa e un rischio.

La beffa è l’apertura di Berlusconi e del PDL che sensatamente, dal loro punto di vista, sostengono da qualche tempo la disponibilità di partecipare a una grande maggioranza. Il rischio è il fallimento dell’ipotesi PD e in ritorno alle urne con un tecnico terzo. Ciò sarebbe la fine politica di Bersani. L’adagio “senza di noi nessuna maggioranza è possibile” del PDL significa qualcosa in più dal “non hai numeri senza di noi”. Vuol dire che le tre forze di pari entità non autorizzano democraticamente la formazione di un governo politico che escluda uno dei tre, anche laddove vi fossero maggioranze numeriche in grado di farlo. Il rischio delegittimazione potrebbe, infatti, avere esiti distruttivi sul piano nazionale.

Oltretutto, il cinico riconoscimento che gli otto punti di Bersani sono gli stessi del PDL sancisce e tradisce la volontà di andare incontro al Parlamento a mani libere e con la sola pregiudiziale anti berlusconiana che impedisce al PD di giustificare in qualsiasi maniera un condominio doroteo con la destra.

In mezzo al guado sta Beppe Grillo e il suo M5S. Se è concesso essere chiari, la delegazione grillina è stata l’unica che abbia espresso in sé un’idea chiara all’uscita dal Quirinale. Abolizione dell’IMU, riduzione dei costi della politica, organi di controllo, eccetera. Ciò non indica niente di più che la sicurezza di essere i rappresentanti diretti del popolo, i tribuni della plebe, unita alla certezza della fragilità comune di PD e PDL.

Che cosa potrà fare Bersani? E quale strada gli consigliamo? Intanto dispiace mortificare la determinazione del segretario, che nasconde sempre un po’ di tracotanza personale, ma parlare di “cambiamento” e “riforme” quando non si è in grado neanche di togliere l’impasse contro la destra è quanto mai azzardato. Significa essere riformisti a parole e non nei fatti. Credo che la buona riuscita di queste sue consultazioni riguardino, invece, prevalentemente il rapporto positivo con il PDL.

Mi spiego. Riformare il Paese adesso vuol dire gettare le basi per un superamento dello scontro frontale destra-sinistra, che da decenni imperversa. Perciò la soluzione da statista è fare un governo di larghe intese con il PDL, con un chiaro intento riformatore, e aprire la strada ad un cattolico di centrodestra al Quirinale. Figure come Antonio Baldassarre o Beppe Piasnu non credo che sarebbero peggiori di alcuni celebrati e blasonati nomi del PD. Con una presidenza garantista e ponderata si potrebbe avere una situazione di equilibrio per fare le riforme economiche, politiche e costituzionali necessarie, compiendo il più audace dei riformismi, il superamento dell’ideologia anti berlusconiana.

In una botta sola, Bersani sconfiggerebbe il M5S, attraverso strategiche riforme politiche, sconfiggerebbe Berlusconi attraverso un suo coinvolgimento nelle larghe intese e sconfiggerebbe il massimalismo ideologico del suo partito che è un retaggio stucchevole del vecchio comunismo, molto presente nei modi e nei gesti soprattutto dei giovani democrat. Quest’ultimo sì, vero preambolo politico e pedagogico della futura democrazia.

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