Domani a san Pietro si svolgerà la messa d’inaugurazione del pontificato, un appuntamento di grande rilevanza anche per la presenza a Roma dei rappresentanti politici di tutto il mondo. Il nuovo Papa, d’altronde, ci ha già abituati a stupire, come si è visto con l’accento che ha posto da subito sulla povertà, accolta direttamente perfino nel nome, scelto con riferimento a san Francesco di Assisi, la figura che più ha incarnato il distacco cristiano dai beni terreni.
Un’opzione culturale da capire
E’ chiaro, tuttavia, che quella contro la ricchezza è un’opzione culturale che deve essere capita, potendo ingenerare qualche dubbio. Ad esempio, qualcuno potrebbe domandarsi se abbia senso adesso parlare in termini positivi della povertà, davanti ad un mondo che soffre una crisi economica così pesante. Rinunciare alla prosperità potrebbe evocare, inoltre, antiche ricette fallimentari, sostenute dai comunisti negli anni ’70, con l’invito all’austerità, ai bassi consumi e alla non competitività del sistema. Inquietudini, insomma, legittime, vista l’indubbia influenza culturale che ha il Papa sulle coscienze.
Contro la speculazione finanziaria
In realtà, quando Papa Bergoglio parla del distacco, non sta per nulla indirizzando il cristianesimo fuori dal capitalismo e lontano dal valore del mercato. Anzi, si deve affermare, piuttosto, che egli punti l’indice esattamente su uno dei fattori che hanno determinato la crisi finanziaria del 2008, nata appunto a causa non dell’economia vera ma dalla tendenza al debito indotta da una parte viziata del sistema creditizio.
In effetti, la parola “povertà”, nella filosofia cristiana, non esclude mai il valore materiale della ricchezza e del giusto profitto, sottolineando semmai che il mercato rischia di diventare un nemico della democrazia e dell’uomo quando il meccanismo puramente speculativo delle operazioni monetarie è sganciato dalla realtà del lavoro e dall’inventiva imprenditoriale.
Povertà come provocazione
A ben vedere, quindi, Papa Francesco ha denunciato giustamente che il più grande nemico della prosperità vera è la falsa ricchezza che partorisce diseguaglianze e miserie. Il progresso, d’altronde, non può essere perseguito senza l’articolato e complesso gioco delle libere iniziative personali che concorrono a produrlo. Giacché, e questo è il dramma delle visioni totalitarie, nel momento in cui si assume che la politica debba controllare e indirizzare in modo autoritario i mercati, questi ultimi finiscono per aumentare il consumo non produttivo e il debito pubblico che genera recessione.
Parlare di povertà è stata, pertanto, una provocazione provvidenziale. Al contrario, infatti, di chi condanna ideologicamente i rapporti economici per sottometterli a dinamiche di potere, la povertà autentica esprime il comportamento etico e solidale dei tanti imprenditori e operatori economici che agiscono tutti i giorni con fatica nel commercio e nella finanza, umanizzando la società con la produzione di beni e la pratica delle proprie responsabilità.
L’etica dello scambio
Il paradosso è, insomma, che il Papa, parlando di povertà, ha indicato l’unico vero rimedio liberale alla stagnazione economica emersa con il culto dei derivati, una soluzione che riposa appunto in un’etica dello scambio che garantisca meriti, qualità del lavoro e tutela dei consumatori. Non a caso, ovunque l’influenza del marxismo è stata minore, maggiore è la presenza di un mercato libero, forte, antimonopolistico e autoregolato; laddove, invece, l’anticapitalismo ha vinto, regnano corruzione, oligopoli e prevaricazioni.