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Papa Francesco segno della semplicità

Confesso che ho pensato a lungo a che cosa dire in relazione ad un Pontificato iniziato appena ieri, a quali parole scegliere per prime, perché ci sono già tantissime cose che vengono alla mente. Quando nel pomeriggio di mercoledì sotto la pioggia battente si avvicinava l’ora in cui si sarebbe vista la fumata bianca dal comignolo, ho avuto l’impressione di essere dentro il Conclave e di stare con i cardinali a eleggere il successore di Pietro, non fuori al freddo e al bagnato. Il significato di questa strana fantasia l’ho capito perfettamente solo quando si sono spalancate le finestre e l’arcidiacono ha annunciato che il cardinale Jorge Mario Bergoglio era il nuovo Pontefice della Chiesa Cattolica.

Soprattutto, è stata la comunicazione del nome, Francesco, che più ha colto nel segno, rivelando il senso della nuova fase della cristianità che si è aperta. Ovviamente, il riferimento è andato all’istante a San Francesco, il fondatore di una spiritualità pratica, basata sulla povertà e la semplicità, la quale, dopo essere stata percepita come rivoluzionaria, è stata accolta come anima fondatrice della cattolicità intera.

Le cose che si possono dire, dunque, sono tantissime. E tantissime se ne diranno, nei prossimi giorni, di un Papa gesuita il cui nome è Francesco. Ma, la prima che veramente viene in mente è la consapevolezza che lo iato, vale a dire la distinzione tra gerarchia e laicato, tra il vertice e la base della Chiesa, è stato di botto annullato. Quel sentirmi irrealisticamente dentro il Conclave, allora, era molto più di un miraggio della fantasia. Era esattamente quanto adesso appare nel programma implicito di un pontificato che evidentemente ha annullato, prima di tutto il resto, le distanze tra le persone. Una grazia straordinaria.

Qui la considerazione diventa delicata, penetrante, profonda. Francesco I ha per tre volte detto che è il nuovo vescovo di Roma, senza parlare del suo essere Papa. Ciò non significa, evidentemente, che la sua presenza sarà meno universale della precedente. Anzi, è vero piuttosto il contrario. L’universalità della Chiesa è la sua romanità, come amava dire Benedetto XVI. E il valore dell’istituzione petrina è di essere mezzo, mezzo indispensabile ma mezzo, solo mezzo, per la santificazione del popolo di Dio.

Eccoci, dunque, al cuore del Concilio Vaticano II, così magicamente reso da Papa Francesco. Egli vorrà riannodare le fila di una cristianità che non deve vivere nella contrapposizione laici-presbiteri, prodotta dal culto del potere ecclesiastico e dalla secolarizzazione laicista, ma della condivisione unitaria dei fedeli nella prassi di vita coerente.

Roberto Bellarmino parlava di caetus christianorum, indicando così la presenza non soltanto esterna, quantitativa, dei battezzati, ma la loro forza spirituale unita e coesa. A tenere insieme la Chiesa è la cristianità, non il potere. Ossia l’essere cristiani veri. E ciò può avvenire solo quando tutti i membri sono attivi nello svolgere un cammino apostolico forte e incisivo nel mondo.

Nel suo voler ricevere dai fedeli della sua diocesi di Roma una preghiera, anteriore alla restituzione in termini di benedizione solenne e d’indulgenza plenaria dell’intenzione spirituale, era possibile cogliere la semplicità di questa sintonia organica. Adesso, nel nome di san Francesco di Assisi, è importante che la Chiesa sia più raccolta e più compatta, si espanda dal centro dell’Europa fino alla fine del mondo. Tale è la vera finalità che abbiamo davanti. Non il potere, non l’esibizione materiale della potenza ecclesiale, ma la forza e l’autorevolezza della fede.

Il teologo francescano Giovanni Duns Scoto diceva che la teologia è una scienza pratica. La fede e l’impegno apostolico non possono mai essere diversi e apparire diversamente. Con Papa Francesco siamo già sicuri che saremo guidati pastoralmente a una riforma e a una purificazione pratica lunga e sostanziale della nostra vita nella Chiesa e nel mondo.

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