Ho conosciuto Pietro Mennea appena due anni fa, quasi per caso. Mi ero avvicinato a lui con estremo rispetto, come si fa con un “mostro sacro”, con una icona dello sport mondiale. Mi colpì, immediatamente, per la sua semplicità e capacità di relazionarsi con una persona più giovane.
Parlammo al telefono di Giochi olimpici, di doping e di etica nello sport. Una lezione di vita, più che una telefonata tra addetti ai lavori. Mi lasciò con una sensazione singolare: avrei voluto conoscerlo immediatamente, per proseguire a parlare di certi temi, magari di fronte ad una tazza di tè. Mi parlò della sua immensa biblioteca dello sport, di un docu-film che stavano preparando sulla sua vita (ci stava lavorando un registra straniero); mi parlò di come si sentiva “emarginato” da una certa nomenklatura sportiva, ma di come fondamentalmente non gliene importasse. Era una persona fiera, stava bene anche da solo, era uno “spartano” nel cuore e nella testa.
Un campione, ma soprattutto una persona di altri tempi.
Poi ci siamo incrociati, professionalmente, sul tema del comitato di ROMA2020. Siamo stati entrambi, su giornali, tv e in seno a convegni specialistici, le uniche due “voci” contrarie su quel progetto, prima ancora che arrivasse il “no” ragionato del Premier Mario Monti. Inizialmente siamo stati visti entrambi come due “nemici”, poi, dopo la scelta di Monti, c’era la fila, da parte dei media, per intervistare soprattutto Pietro. Un finale classico in questo Paese medievale, dove vale solo la regola del “vae victis” e dell’ipocrisia come scelta di vita.
Pietro camminava a tre metri da terra, perché era di un altro pianeta, lo è sempre stato e lo era ancora di più in un Paese che non ha saputo mai valorizzarlo.
Fu chiamato a consegnare, prima di un Golden Gala una medaglia commemorativa a Usain Bolt a Villa Borghese (ero presente e vidi questa scena e mi vergognai per molti lì presenti), mi fece tenerezza, perché accettò di farlo pur capendo che non sarebbe stato trattato in modo paritario. Ma per me era lui il vero campione, prima ancora di Usain Bolt. Dopo la celebrazione, si rimise il cappotto e lo vidi allontanarsi da solo lungo il viale. Mi vergognai per tutti coloro presenti quel giorno in quel posto.
Lo sentii successivamente per una intervista-lampo, 30 minuti prima, della finale uomini 200 metri di Londra2012. Fu simpaticissimo. Mi disse: “Ancora oggi sarei in finale con il mio 19.72, senza avere i mezzi tecnologici di Bolt, in termini di allenamento. Chi è il fenomeno, secondo te?”. Aveva ragione.
Caro Pietro, sono sicuro che adesso sei in un mondo molto migliore del nostro, eravamo amici ancora prima di conoscerci. Mi dispiace solo di continuare di averti conosciuto così tardi e di rimanere, da solo, a lottare in un Paese che non è moderno e democratico, come vorrebbero farci credere.
Oggi muore un grande uomo. E questa medaglia morale, prima ancora di quella conquistata sul campo a Mosca 1980, non te la toglierà mai nessuno.
Ma su una cosa stanne certo: sono spartano anch’io e non mi piego a priori. Sarà un onore per me portare avanti le tue battaglie di “valore”.
Prima di terminare questo editoriale, lo voglio ricordare con un frammento di memoria di un ragazzo romano di 12 anni. Ascoltò quella interminabile finale di Mosca 1980, per caso, in un supermercato Upim di Monteverde (oggi chiaramente sparito), grazie alla filodiffusione. Si fermò l’intero supermercato, per capire chi avrebbe vinto. Quel ragazzo, per la cronaca, si chiamava Marcel Vulpis e ancora non sapeva che avrebbe avuto la fortuna di conoscerti molti anni più tardi di persona. E’ stato un onore!
Riposa in pace, Pietro.