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Tra Stati Uniti e Israele resta l’incubo dell’Iran

Pubblichiamo un articolo del dossier “Il ritorno di Obama in Medio Oriente” dell’Ispi

Nel 2009 fu la parola speranza a declinare le tappe del viaggio di Barack Obama in Medio Oriente, il primo come presidente degli Stati Uniti. La sua elezione aveva suscitato grande curiosità nel mondo islamico e sull’onda di quell’entusiasmo la Casa Bianca si prefiggeva di trasformare il temporaneo reset emotivo in qualcosa di più duraturo. “Il mio lavoro con i Paesi musulmani è spiegare che gli americani non sono loro nemici”, dichiarò il neo-presidente in un’intervista ad Al Arabiya pochi giorni dopo la sua partenza.

L’università di Al Azhar era il luogo in cui dimostrarlo. Obama citò il Corano, rese omaggio ai grandi pensatori dell’islam e al loro contributo alla civiltà occidentale, parlò dell’alleanza con Israele, ma anche delle legittime aspirazioni palestinesi, articolò la sua visione della libertà, attento però a sottolineare che, quanto alla democrazia, “l’America non ha la presunzione di sapere cosa è meglio per tutti”.

In Iran le mosse di Obama furono seguite con attenzione. Da candidato aveva parlato di “diplomazia diretta” e si era dichiarato disposto a incontrare il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Pur critico nei confronti dei “comportamenti irresponsabili” degli iraniani, Obama sottolineava che la censurabile condotta di Teheran era motivata dall’ansia provocata dalle politiche di George W. Bush. Pochi mesi prima, in un messaggio diffuso in occasione del Nowruz, il nuovo anno iraniano, il presidente statunitense aveva esteso i suoi auguri non solo al popolo iraniano ma anche ai leader della Repubblica islamica a cui aveva offerto un dialogo basato su “interessi comuni” in un’atmosfera di “rispetto reciproco”.

La sfida iraniana era al cuore della politica mediorientale di Obama e la mano tesa dell’America era pronta a incontrare quella dell’Iran se solo i suoi governanti avessero sciolto il pugno, tanto che quando le manifestazioni contro la contestata rielezione di Ahmadinejad si tinsero di sangue, la reazione della Casa Bianca fu improntata a un’estrema cautela. “La soppressione del dissenso pacifico è motivo di preoccupazione per me e per il popolo americano» dichiarò il presidente Obama nel primo commento alle violenze del regime, mentre nelle piazze di Teheran accanto a «morte a Khamenei” si moltiplicavano i cartelli: “Obama sei con noi o con loro?”. Ray Takeyh membro del Council on Foreign Relations allora parte della task force del Dipartimento di stato sull’Iran la ricorda come «una risposta dolorosa». Il mantra alla Casa Bianca era “Iran is what it is”.

Il pragmatismo però non pagò. Nel dicembre del 2009 il negoziato nucleare di Ginevra naufragò miseramente – Ahmadinejad aveva aperto uno spiraglio e l’Ayatollah Khamenei si era affrettato a chiuderlo –, in seguito Mosca e Pechino capitolarono al Consiglio di sicurezza e acconsentirono a sanzioni via via più muscolari. Lo spauracchio del grand bargain con l’Iran (una prospettiva osteggiata tanto da Israele quanto dall’Arabia Saudita e dal Consiglio di cooperazione del Golfo), è stato soppiantato dall’ipotesi di un attacco (israeliano) all’Iran.

Quattro anni dopo Teheran rappresenta ancora il cubo di Rubik della politica estera americana, ma Obama torna in una regione in cui sono scomparsi interlocutori come Hosni Mubarak e nemici storici come Muammar Gheddafi, una regione in cui mentre la Siria brucia, i vecchi amici come l’iracheno Nouri al-Maliki vanno a braccetto con Teheran e i nuovi come Mohamed Morsi restano difficili da decifrare. Il soft power iraniano è uscito ridimensionato dalla repressione post elettorale del 2009 e soprattutto dal sostegno a Bashar al-Assad. Secondo un sondaggio Zogby, recentemente presentato al Wilson Centre, l’Iran è giudicato sfavorevolmente da 11 dei 17 dei paesi della regione presi in esame e solo Iraq e Libano considerano Teheran un modello positivo.

L’insofferenza araba contro l’Iran (la scarpa in testa ad Ahmadinejad in visita al Cairo non è un caso) è però anche una spia del crescente carattere settario che denota le relazioni regionali. In Arabia Saudita il 92% della popolazione sciita guarda favorevolmente a Teheran, tra i sunniti la percentuale è pari allo 0 in Bahrain, cartina di tornasole della guerra sotterranea tra Teheran e Riyadh, il 76% degli sciiti approva Teheran contro il 4 % dei sunniti. L’ascesa dei Fratelli musulmani ha insinuato crepe nel rapporto tra Hamas e l’Iran e ingigantito la competizione con Riyadh. Al Cairo, una città poco problematica per gli sciiti fino a due anni fa, pullulano nelle librerie gli studi “sulla corruzione sciita”.

Tuttavia sarebbe semplicistico tradurre la caduta verticale dell’immagine iraniana con un placet regionale a uno strike contro le installazioni iraniane. Così, mentre sul risiko mediorientale si allungano le ombre di rivalità antiche e ambizioni nuove, la vigilia della visita di Obama in Medio Oriente, stavolta, suscita attese contenute. È il realismo più che la speranza la cifra di questo viaggio e soprattutto della sua tappa israeliana. Il presidente americano deve restaurare la sua immagine a Gerusalemme, convincere Israele che sull’Iran non bluffa e Israele – al di là della difficile chimica tra Obama e Netanyahu, dei disaccordi sull’engagement e sulle sanzioni – deve continuare a tessere la sua tela intorno a Teheran e farlo insieme a Washington, perché l’orologio atomico iraniano ticchetta (lo ha confermato lo stesso Obama intervistato dalla tv israeliana Canale 2 “ci vorrà oltre un anno o giù di lì” ha detto riguardo alla marcia iraniana verso la bomba) e anche se l’America non è il migliore degli alleati possibili, è pur sempre il suo maggior alleato.

Tatiana Boutourline, giornalista, collabora con “Il Foglio”.

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