Il nostro è un grande Paese, anche se non sempre sembra tale. Anzi, si può dire che siamo grandi quando nessuno vede, quando viviamo cioè privatamente il nostro senso profondo della comunità. Quando, invece, arrivano le occasioni pubbliche, tornano in scena le solite manfrine, con i giudizi intellettuali più o meno sciocchi di sempre degli uni contro gli altri.
Se non altro per questo, il 25 aprile è una ricorrenza che andrebbe abolita, come tante altre. O un popolo riesce a collocare questi simboli del calendario al giusto posto dall’immaginario collettivo, oppure è meglio lasciar perdere.
Quest’anno ci ha pensato Grillo ad arricchire il pantheon di sciocchezze intervenendo sulla Liberazione, paragonando la fine della guerra al nostro tempo, alimentando così la consueta confusione.
Al solito, per farla breve, davanti a queste presunte feste, si utilizza la storia non come memoria ma come clava per bastonare qualcun altro, seguendo con ciò la peggiore prassi antidemocratica fascista e partigiana al contempo. Ovviamente, c’è chi si fa difensore della lotta antifascista in nome dell’attuale fascismo, e c’è chi invece sente un trasporto verso la chiusura, solo apparente, della guerra civile che imperversa costantemente dentro di noi.
Ora, in un quadro così variopinto e folkloristico, un paio di cose vere dovrebbero essere dette.
La prima riguarda l’unità nazionale. Mica penseremo davvero, come dice Rodotà, che essa sia incarnata dalla Costituzione? È veramente singolare pensare che un uomo così intelligente senta ancora oggi la necessità di dire una cosa simile. Se siamo davvero una nazione non lo dobbiamo certo a un pezzo di carta e a una serie splendida di enunciati teorici. Un popolo è tale, come insegnava Tommaso d’Aquino, quando gli elementi esistenziali e valoriali che tengono unite le persone sono superiori a quelli che le dividono. E questo principio di unità non è lettera morta, ma vita e sentimenti profondi. E, pertanto, non può essere né il fascismo, né l’antifascismo a rappresentarli perché esse sono vicende nazionali, non spirito comunitario. Tanto meno la Costituzione in sé può incarnare un popolo. Il senso nazionale è qualcosa di religioso, in senso civile, logicamente, oppure non è niente di niente.
Certo, si può capire che Grillo, campione della contestazione da quattro soldi, dica scempiaggini manichee in materia, ma che lo faccia l’elite culturale di Repubblica lascia perplessi. La cosa si giustifica solo con l’ideologia autoritaria e rivoluzionaria che si proietta sulla Costituzione. Aristotele ricorda, invece, che la vera costituzione è l’essere uno di un popolo, oltre le divisioni legittime degli interessi. Con tutto il rispetto, il diritto positivo è una tecnica indispensabile a garantire la legalità nei conflitti giudiziari, e perciò non costituisce l’essenza della democrazia.
La metterò giù semplice. L’Italia è una Repubblica democratica, certamente. Ma non solo la sua realtà non è fondata sul lavoro, ma il modo in cui interpretiamo il passato e il presente nello spazio pubblico rivela che non siamo ancora una nazione senza che ci riveliamo come tali. Se manca l’anima comune, che tiene insieme e orienta verso una comune volontà, buona notte al secchio. Ad esistere sopra di noi è invece quel totem che dà vita allo Stato. E tale idolo autoritario e spendaccione ha uno spettro: il costituzionalismo, vale a dire l’ideologizzazione della Magna Carta.
Ah!, per inciso, risparmio le critiche. Quello che è narrato nella prima parte della nostra legge fondamentale certamente costituisce un riferimento a valori importanti, ma non è il Vangelo. Non credo ci sia bisogno di ribadirlo. Infatti io, come molti italiani, amerei che il giuramento di chi guida il Paese fosse fatto sulla testa dei propri figli e nipoti, piuttosto che su una procedura, attorno alla quale ci siamo sclerotizzati, abbiamo imbastito una retorica nauseante e abbiamo consumato l’omicidio dello spirito nazionale, che è l’unità democratica e sostanziale del popolo. Il resto è noia sul serio. O, nel migliore dei casi, malafede.