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La Corea del Nord è una bomba indecifrabile

Pubblichiamo un articolo del dossier “Corea del Nord, Cina profonda, Erdogan-Ocalan” di Affari Internazionali

La confusione è massima, per cui sarà forse meglio attenersi a quel poco che è realmente verificabile. Il tentativo di interpretare le intenzioni del nuovo autocrate ereditario della Corea del Nord, ultimo bocciolo dell’albero dei Kim, Jong-un, sembra futile: semplicemente non se ne sa abbastanza. Alcuni pensano che sia brutto e cattivo, forse anche matto, altri che sia perso in una sorta di suo video-gioco a grandezza naturale (forse una nuova puntata di Scary Movie?), altri infine che sia un machiavellico manipolatore del terrore altrui. Da anni, in realtà, gira tra gli analisti la domanda se il governo nord-coreano sia “Bad, Mad, Sad or Rational?”. Risposte a piacere.

Realtà e apparenza

Gli obiettivi “razionali” dell’attuale escalation verbal-diplomatica potrebbero essere diversi. In campo internazionale vanno dal tentativo di impedire un ravvicinamento della Cina alla Corea del Sud (forse preannunciato dall’atteggiamento più critico assunto da Pechino nei confronti di Pyongyang) al desiderio di essere riconosciuti in quanto potenza nucleare o alla possibilità di concludere un trattato di pace bilaterale direttamente con gli Stati Uniti.

All’interno invece saremmo di fronte ad un’operazione di mobilitazione nazionalistica volta a rafforzare il regime (messo in crisi dalla debolezza economica e dalla drammatica penuria in campo alimentare) e ad assicurare la legittimazione di Kim Jong-un come nuovo leader supremo. Ma in ogni caso la tattica prescelta è estremamente pericolosa e, da un punto di vista di mera razionalità strategica, eccessivamente sbilanciata.

La Corea del Nord minaccia di colpire il continente americano con le armi nucleari, ma non sembra avere le capacità tecniche per farlo. I suoi missili a più lungo raggio potrebbero forse raggiungere l’Alaska (alcuni più pessimisti parlano della costa del Pacifico, ma sono una piccola minoranza), senza alcuna seria precisione di tiro e probabilmente anche senza una testata nucleare.

Potrebbero naturalmente raggiungere il territorio sud-coreano, quello giapponese e qualche altra base avanzata americana, come l’isola di Guam. Ma il rischio di una risposta devastante da parte degli Stati Uniti sarebbe altissimo, ed è del tutto improbabile che Russia o Cina si esporrebbero a beneficio di un paese che abbia inflitto un primo colpo nucleare.

La retorica delle minacce potrebbe essere accompagnata da un ulteriore tintinnar di sciabole, come ad esempio un nuovo test nucleare, oppure missilistico, o ambedue. Anche in questo caso però non si capisce bene cosa Pyongyang avrebbe da guadagnare. Dopo l’ultimo test nucleare della Corea del Nord, il Consiglio di sicurezza, con l’approvazione della Cina e della Russia, ha fortemente indurito le sanzioni economiche internazionali. Una ennesima sfida provocherebbe solo una nuova e ancora più dura risposta.

Foschi scenari

In realtà, l’unica carta di una certa importanza ancora in mano della Corea del Nord sono le sue forze armate convenzionali. Esse non sono certo armate con gli ultimi ritrovati della tecnologia e potrebbero probabilmente essere sgominate da una decisa reazione americana e sud-coreana. Ma ci troveremmo di fronte ad uno scenario particolarmente sanguinoso, con alte probabilità di forti perdite civili, e questo potrebbe in qualche modo condizionare la risposta alleata (più di quanto non lo possa fare l’improbabile minaccia nucleare).

C’è anche il rischio di una ripetizione dello scenario del 1953, quando le forze americane, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, avevano ormai sconfitto l’esercito della Corea del Nord e si avvicinavano a grandi passi alla frontiera con la Cina. Ciò provocò la mobilitazione e la minaccia di intervento militare di Pechino. Ancora oggi, come ieri, il governo cinese non vorrebbe avere a che fare con una Corea riunificata e alleata degli Usa ai suoi confini.

La  vicina Corea del Sud

Il ricorso alla minaccia militare, scartate le minacce dirette agli Usa come altamente improbabili, riporta l’attenzione sulla penisola coreana. Ci sono ragioni per ritenere che la crisi abbia radici tutte coreane, nel Nord come nel Sud.

La Corea del Sud ha da poco eletto un nuovo presidente, la signora Park Geun-hye, che non si è sinora mostrata molto ricettiva alle domande di dialogo paritario e reciproco riconoscimento avanzate dalla Corea del Nord. Al contrario, la sua piattaforma elettorale parla di una riunificazione possibile solo “sulla base di un sistema liberal-democratico”, della necessità di proteggere i diritti umani in Corea del Nord, di ottenere in via preventiva la distruzione della capacità militare nucleare del Nord, oppure, se questo non avvenisse, di “rafforzare la capacità di dissuasione del Sud” (e questo ha aperto un dibattito tra esperti sulla possibilità che anche il Sud scelga la via del riarmo nucleare: molto improbabile, ma certo preoccupante per il Nord). Infine vi è uno scambio di inviati tra la neo-presidente sud-coreana e il nuovo Presidente cinese, Xi Jinping.

Se questo fosse lo scenario reale, tuttavia, sarebbe tutt’altro che rassicurante. Non ci troveremmo di fronte alla prospettiva di un guerra nucleare (o almeno, non ancora), ma in compenso potremmo trovarci sull’orlo di un molto più realistico ed estremamente sanguinoso e destabilizzante conflitto convenzionale, che metterebbe a durissima prova sia gli equilibri asiatici che l’intero sistema delle Nazioni Unite.

Apparentemente Pyongyang non riesce a questo stadio a concepire iniziative diplomatiche più sofisticate e meno pericolose di una ripetizione del vecchio scenario degli anni ’50. Sinora gli altri interlocutori sembrano decisi ad evitare provocazioni, ma anche assolutamente convinti che non sia il caso di cedere neanche un centimetro, e questo sembra spingere il regime nordcoreano verso affermazioni e iniziative sempre più stravaganti e minacciose. Potrebbe presto arrivare il momento in cui le parole non sembreranno più sufficienti.

Stefano Silvestri è direttore di Affari Internazionali e presidente dello IAI.


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