Che Matteo Renzi abbia ormai un suo spazio politico, è cosa nota a tutti. Che abbia i nervi saldi per sopravvivere, non è detto. Anzi, a guardar bene le ultime ore, sembrerebbe, perfino, che stia lavorando contro se stesso, per terminare in fretta la carriera politica. E, quel che è peggio, dopo aver messo a segno un punto dopo l’altro per almeno quattro anni di fila.
Mah, un vero mistero italiano. Non vorrei avventurarmi in profezie, ma il giovane rottamatore sta perdendo la bussola. In questo somiglia a Gianfranco Fini. L’ex segretario del Msi, dopo aver trovato un’identità nel centrodestra, difficilissima da conquistarsi, dopo esser stato sdoganato da Berlusconi, ha buttato tutto con quel fatidico “che fai, mi cacci?” al famoso Consiglio Nazionale all’Auditorium del 2011. Allo stesso modo, sia pure in un contesto diverso, anche Renzi sembra non aver capito nulla, dopo che ha capito tutto prima degli altri.
Mi spiego. Le sua recenti uscite pre quirinalizie sulla Finocchiaro e Marini sono semplicemente scellerate. Danno gusto a chi non simpatizza per il Pd e per Renzi, come il sottoscritto, ma certo non fanno buon gioco per lui. In politica vige la regola aurea: mai farsi nemici che non servano. E i notabili sono veramente inutili bersagli per il rampante Matteo.
Il ragionamento è semplice. Pierluigi Bersani è in panne. Si è rinchiuso in un angolo da solo insieme a Vendola e Fassina, con un gruppo di giovani neo comunisti che vivono di leggenda. Nessuno di quel gruppo dirigente potrà da solo sopravvivere al Segretario. Ormai non serve neanche più rottamarlo questo Pd, perché il colpo di grazia si chiama Fabrizio Barca. Il futuro del partito è, d’altronde, contraddistinto dalla presenza di molte figure di riserva che potranno entrare in scena per guidarne il destino senza cambiarlo. Vi è una folta nomenclatura che si assiepa nelle aule universitarie, tra docenti e studenti, e nelle aule di giustizia tra Pm e magistrati, che sono perfettamente accreditati nel Pd. Dov’è il problema, infatti, per un partito tanto radicato nelle élite del Paese da poter utilizzare perfino qualche montiano per gestire lo status quo?
Renzi, in breve, ha una sua immagine di riformatore perché è in un partito sufficientemente fermo e conservatore da potergli fare avere quel ruolo da front man. Mi ricorda Saint-Beuve che diceva: “Vorrei vivere in un Paese tanto conservatore da farmi essere riformatore”. A lui accade lo stesso. Solo che è Renzi ad incarnare da solo una modernità davanti ad un partito che è statica e un elettorato di sinistra che lo vede come un messia.
Che senso ha, allora, aprire sterili polemiche sul Quirinale? Che valore aggiunto può ricavare dal farsi inimicizie inutili con vecchi baroni come la Finocchiaro e Marini?
Il problema è, ovviamente, molto più grande, molto più complesso di come lo descrivo qui. Renzi morde il freno perché sa bene che non durerà in eterno questo suo consenso popolare. E sa bene che il manifesto di Barca arriva a pennello per dargli scacco matto. Le regole politiche sono sempre le stesse. Solo che il gioco adesso è a tre. Bersani il conservatore e Barca il progressista contro Renzi il riformista. Una cosa colpisce, infatti, nel documento del Ministro, l’uso di un linguaggio praticamente incomprensibile. Karl Mannheim diceva che ciò accade sempre quando un’ideologia progressista vuol coprire un interesse conservatore con una coltre di rinnovamento linguistico.
Ebbene, questa è la ragione vera per cui Renzi perde il controllo, sfodera la spada e la fa brillare di scintille facendo minacciosamente passare la lama affilata sull’asfalto. Ma non è così che vincerà. Un riformatore intelligente, difatti, non si lascia infinocchiare dalla provocazione, tacendo quando è il momento di farlo, aspettando i cadaveri passare dal bordo del fiume.
Renzi ha piagnucolato davanti all’esclusione, bene. Ha detto che non ama Bersani, benissimo. Ma lasci stare le seconde file. Non perda tempo a fare il ragazzotto di provincia che litiga al bar per chi conta di più. Non ha alcun senso bruciarsi così, se non per far posto a Barca che arriva, supportato dalle lobby del passato e dalla riconoscibilità unanime di un uomo con un cognome illustre nelle stanze e nei ricordi del Pd.
L’arma di Renzi non è la polemica ma il consenso. E questo non glielo dà ostentare con i muscoli la capacità di battere da solo Berlusconi, perché senza partito non può farcela. Glielo dà semmai la consapevolezza che il Pd senza Renzi non vincerà mai, con o senza Barca. Per questo la vittoria di Berlusconi non è mai stata utile al Pd e potrebbe esserselo ancora meno oggi davanti alla crescita di Renzi. Con Prodi al Quirinale e Barca in competizione, d’altronde, Renzi è fuori gioco!
Il Pd è un partito conservatore da sempre nemico delle mutazioni genetiche. Perciò seguirà Barca e non Renzi, soprattutto se Renzi si scava la fossa con l’ingenuità delle trappole per topi che gli mettono sul cammino. Il Sindaco di Firenze può vincere, invece, non sfidando l’apparato frontalmente, ma sottraendogli il consenso popolare di cui l’apparato ha bisogno, restando dentro il partito, senza polemiche, e guardando negli occhi il Paese reale che vive fuori da Botteghe Oscure. Sempre che vi sia sostanza in Matteo Renzi. Cosa di cui, a questo punto, è lecito dubitare.