In tempi di tagli ai bilanci della difesa, le industrie europee del settore devono puntare sulle esportazioni e sull’innovazione tecnologica per sopravvivere. Una scelta che incide in modo diverso sulle piccole e medie imprese (Pmi) e sulle grandi, e che richiede un impegno anche da parte delle autorità nazionali ed europee, soprattutto per favorire la crescita economica e arginare la de-industrializzazione in corso nell’Ue.
La situazione delle Pmi nel settore aerospazio, sicurezza e difesa, così come in altri campi, è spesso poco conosciuta. Una prima distinzione di massima va fatta tra le Pmi di prodotto e di processo, sebbene i confini tra le due categorie non siano poi così netti.
Le prime sono in grado di sviluppare e produrre un prodotto o un servizio vendibile direttamente al consumatore finale. Le Pmi di processo invece sono specializzate nel fornire un prodotto o un servizio intrinsecamente legato alle esigenze della grande impresa di riferimento operante nel settore. Entrambe, e specialmente le Pmi di prodotto, competono sul mercato europeo e globale.
Tale competizione richiede uno specifico sostegno da parte delle autorità nazionali, a causa della natura stessa del mercato internazionale della difesa, dove i compratori sono soggetti pubblici quali forze armate, corpi di polizia ed agenzie preposte alla gestione delle crisi quali vigili del fuoco o l’equivalente della protezione civile. Soggetti che nel verificare l’affidabilità del fornitore danno un significativo credito alle esperienze dei loro omologhi di altri paesi amici che utilizzano un dato prodotto.
Best practices britanniche
Interessante in tal senso l’esempio della Gran Bretagna, con due best practises di rilievo. In primo luogo, il ministero degli esteri britannico si è dotato di un ufficio apposito per la promozione delle Pmi del settore sicurezza, aerospazio e difesa. Tale ufficio – in tandem con un’unità del ministero della difesa che offre possibilità di testare i prodotti militari delle Pmi – si occupa tra l’altro di organizzare eventi in paesi terzi volti a mettere in contatto le realtà imprenditoriali britanniche con potenziali compratori. Un esempio è stato l’evento organizzato lo scorso marzo nella residenza dell’ambasciatore britannico a Roma, che ha visto la partecipazione di circa 25 Pmi britanniche.
Si tratta spesso di imprese relativamente giovani o di start-up, che coprono un ampio ventaglio di servizi e prodotti, alcuni dei quali sviluppati in ambito militare e altri risultanti da applicazioni di tecnologie provenienti dal settore civile. Specialmente nell’ultimo decennio, infatti, l’innovazione tecnologica al di fuori dell’ambito militare ha vissuto una forte accelerazione, e l’osmosi tra i due settori è cresciuta esponenzialmente sulla base di tecnologie dual-use – ovvero tecnologie utilizzabili, con o senza piccoli adattamenti, per scopi sia civili che militari indifferentemente dalla loro progettazione originaria.
Un’altra significativa best practice britannica riguarda il finanziamento alle attività di ricerca e sviluppo attraverso il Centre for defence enterprise (Cde), un’apposita, piccola, unità del ministero della difesa. Dal 2008 il Cde ha finanziato 671 progetti di ricerca, tramite competizioni aperte e con importi mediamente inferiori alle 70.000 sterline, principalmente rivolti a Pmi attive in settori a forte innovazione tecnologica.
Caso Italia
In Italia i problemi comuni a tutte le Pmi – che nel complesso rappresentano il 96% del Pil nazionale – sono ben noti: difficile accesso al credito bancario, cronico ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, alta pressione fiscale e pesante fardello burocratico. In aggiunta, le Pmi del settore aerospazio, sicurezza e difesa soffrono di tre ulteriori handicap.
In primo luogo, il sistema-paese non sostiene a sufficienza le esportazioni nel mercato internazionale. Negli ultimi anni tale sostegno è aumentato da parte del ministero della difesa, e in particolare del Segretariato generale della difesa/direzione nazionale armamenti, che ha come mandato statutario anche la tutela delle capacità industriali nel settore della difesa, necessarie a mantenere la sicurezza degli approvvigionamenti e la sovranità operativa sull’equipaggiamento utilizzato dalle Forze armate. Tuttavia l’impegno e il coordinamento tra i vari attori istituzionali, inclusi presidenza del Consiglio, ministero della difesa, ministero degli esteri, Istituto per il commercio con l’estero, sono ben lontani da quelli dimostrati sistematicamente da paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna.
Altro problema riguarda le attività di ricerca e sviluppo. In Italia il finanziamento a tali attività è inferiore alla media europea, ed è un facile bersaglio per i tagli alla spesa pubblica rispetto ad altre voci di spesa meno produttive ma più difficili da intaccare. Inoltre, la pianificazione del procurement militare dovrebbe essere più stabile, trasparente e orientata al lungo periodo, per mettere le imprese – grandi, medie e piccole – nelle condizioni di concentrare gli investimenti in innovazione tecnologica nei settori o prodotti più promettenti.
Infine, le Pmi devono far fronte ad un cronico ritardo dei pagamenti da parte delle grandi imprese anche per la loro partecipazione ai programmi di rinnovamento degli equipaggiamenti delle Forze armate italiane. Molto spesso ai ritardi dei pagamenti da parte della Difesa si sommano ulteriori ritardi, trasformando paradossalmente le Pmi in finanziatori delle grandi.
Sfida Ue
Una parte dei problemi italiani è comune a tutta l’Ue, dove le attività di ricerca e sviluppo non sono coordinate né sinergiche, il mercato della difesa non è sufficientemente integrato e accessibile alle Pmi, gli stessi finanziamenti da parte delle istituzioni europee – Commissione, Agenzia europea di difesa, Agenzia spaziale europea – non sono congegnati in modo da favorire la partecipazione delle Pmi.
Passi avanti in tal senso potrebbero essere: l’adozione di un sistema di mutuo riconoscimento di certificazioni nazionali di affidabilità delle Pmi, per rimuovere le barriere anche informali all’ingresso in altri mercati; la trasformazione del Electronic Bulletin Board dell’Agenzia europea di difesa in un database comprendente tutti i programmi di acquisto da parte di forze armate e di polizia di tutti i paesi membri dell’Unione e delle stesse grandi imprese e non solo quelli decisi con il ricorso all’art. 346 del Tfeu sulle deroghe, in modo da aumentare la trasparenza e l’accessibilità del procurement rispetto alle Pmi europee; la decisione di riservare una parte dei finanziamenti Ue del programma Horizon 2020 esclusivamente alle Pmi, che certo non possono competere in una condizione di parità con grandi imprese nella partecipazione ai bandi europei.
Tali misure a livello Ue aiuterebbero le Pmi europee, ma non sarebbero sufficienti per le imprese italiane che necessitano di essere messe nelle condizioni per competere a livello internazionale: la crisi economica e i tagli ai bilanci della difesa europei hanno accelerato la corsa all’export e all’innovazione: chi si ferma è perduto.
Alessandro Marrone è ricercatore presso l’Area Sicurezza e Difesa dello IAI.