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Perché si diffonde un amore sconsiderato per la mediocrità?

Ascolto una sinfonia di due secoli fa e il pensiero corre a che cosa abbiamo perduto rinunciando a coltivare la bellezza, la sapienza, la spiritualità, l’armonia delle forme. Due secoli di razionalismo hanno prodotto devastazioni che fanno ormai parte del paesaggio che ci circonda e ci fanno accettare, come se fosse naturale, di discutere della “morte del romanzo”, della “fine della politica”, della “crisi dell’arte”, della “paura di misteriose malattie”, della scomparsa dell’Occidente, dell’annichilimento del pensiero europeo incapace di esprimere qualcosa di meno caduco dello stile di vita, della moda, della gastronomia che pure non vanno disprezzati, né sottovalutati.

Ma una volta, prima che la decadenza s’impossessasse delle nostre menti e contaminasse le nostre anime, che producesse meccanismi infernali dei quali siamo prigionieri, c’era un’idea di grandezza alla quale si sacrificava perfino la vita e la si offriva all’Eterno, come estremo atto d’amore. Oggi chi può dire che la generosità coincida con la gratuità, in senso metafisico prima che materiale?

Ecco perché anche le espressioni migliori della letteratura risentono di una mediocrità difficile da nascondere poiché le resistenze sono state abbattute, negli ultimi decenni si sono affermati pensieri oggettivamente poveri che hanno trasmesso il rumore della modernità a tutti i popoli, perfino a quelli che erano rimasti al riparo dalle trasformazioni del materialismo in relativismo etico e culturale, introducendoli in un universo meccanicistico e deterministico banale ed elementare nel quale la sinfonia è una rara armonia perduta e il frastuono è la colonna sonora della nostra vita.

Lo chiamano “declinismo” questo rapido trascorrere da una visione edenica della realtà e dell’immaterialità a una accettazione postribolare dello svolgimento dei rapporti umani fondati sull’”egualitarismo inintelligente”, come lo definì, in un memorabile articolo sul Corriere della Sera del 23 gennaio 2011, Andrea Carandini che senza scomodare nessun apocalittico del Novecento, ripropose un tema che le istituzioni culturali sono assolutamente refrattarie dall’affrontare: la decadenza, appunto, quale espressione di un momento storico tra i più deprimenti della vicenda umana, almeno dalla caduta dell’Impero romano.

Non è il caso di rivendicare qui un’eredità difficilmente comprensibile, ma quantomeno la riappropriazione di una misura dell’esistenza fondata sulla cultura diffusa, sul riconoscimento del bello, sul rispetto delle tradizioni. Non c’è niente da fare: si possono invocare tutti i sostegni che si vogliono alla produzione della conoscenza, ma senza idee non ci sono risorse che bastino a far mutare l’orizzonte spaventoso in un giardino delle delizie. Perciò Carandini, sconcertando tardo-illuministi che non coltivano la sacra religione del pessimismo eppure immalinconiscono nell’osservare i segni del deperimento della civiltà occidentale ed euro-mediterranea (solo per limitarci al caso nostro), scrisse: “Dopo generazioni di egualitarismo, che ha pericolosamente ravvicinato l’asino al sapiente, la qualità culturale si è straordinariamente abbassata”. Con chi vogliamo prendercela? Con la politica? E sia: tanto, è come sparare sulla trincea più fragile e sguarnita. Con le accademie? Va bene. E così pure con il sistema delle comunicazioni, con le grandi agenzie di orientamento, con lo sfruttamento della natura a fini meramente economicistici neppure immaginando che dal rapporto equilibrato con essa dipende la rinascita della persona nel contesto armonico delle forme esistenti. I responsabili sono tanti. E tutti insieme hanno contribuito a formare una macchia indelebile sulla coscienza dell’umanità che si chiama appunto decadenza. Osservava, sconsolato e pessimista fino al sublime Carandini: “Le qualità umane da eccellenti diventano mediocri e – peggio – si diffonde un amore sconsiderato per la mediocrità: come è bello essere ignoranti, protervi, urlatori, volgari! Un tempo si scrivevano romanzi in cui la formazione era lo scopo di una vita. Il merito nella ricerca era il solo metro di giudizio per l’avanzamento negli studi. Libri, archivi, antichità, belle arti, monumenti,paesaggi costituivano il serbatoio nazionale della memoria su cui si edificavano persone e personalità, che ora si plasmano invece su insistenti pubblicità e costumi sempre più inattraenti”.

Un pianto antico che dovrebbe commuovere perfino chi questo linguaggio non lo comprende poiché il dolore di queste parole è un atto d’amore verso tutto ciò che abbiamo perduto e paradossalmente di fiducia in una possibile rivolta che induca le poche élites rimaste in piedi, reazionarie per disperazione, a continuare nell’opera di richiamo allo smarrito universo morale e civile dal quale potrebbero venir fuori le armi per combattere la decadenza. Dobbiamo crederci per quanto sia difficile. I cicli storici hanno un inizio e una fine. L’incognita è se quello che stiamo vivendo evolverà in meglio o in peggio. I segni, a essere sinceri, non sono incoraggianti. Scuola, università, ricerca, editoria, televisione, cinema, prosa, tecnologie non offrono modelli tali da farci ritenere che possa essere alle viste una riconquista di ciò che abbiamo perduto o che si sta progressivamente deteriorando. Se il sesso e il denaro sono i soli feticci ai quali dedicare l’esistenza e se i modelli di vita che la pubblicità e la letteratura ci propongono rimandano ossessivamente a essi, come fare per risalire la china? Davvero il destino che prepariamo alle generazioni che verranno è intriso dei veleni che abbiamo interiorizzato?

Credo che su questo interrogativo si debbano fermare tutte le diagnosi – politiche, artistiche, culturali, economiche, sociologiche – che siamo in grado di fare. Se non si comprende che l’avvelenamento è come un fiume che diventa sempre più impetuoso, fino a trascinare in un nero oceano di disperazione ogni cosa, è impossibile immaginare un avvenire diverso da quello che non è difficile ipotizzare. Certo, ogni tramonto prevede un’aurora. Ma se si resta rinchiusi in una sorta di bunker cullandosi nell’illusione che sia perfino confortevole restarci, con tutti i gadget che si hanno a disposizione, perché bisognerebbe attendere una nuova alba?

Ecco, il declino è la visione del vuoto che consapevolmente si accetta per dare alla vita mortale l’illusione dell’eternità. La grandezza, al contrario, è consapevolezza di essere partecipi di un’altra vita, di una storia che non finisce con un ultimo respiro. Lo sapevano gli antichi dai quali non abbiamo appreso nulla che non fosse lieto per un breve momento. Eppure so che la sinfonia che sto ascoltando avrà ancora poche note, ma non per questo morirà per sempre. Al contrario, ritornerà fino a quando la bellezza sarà capace di tendere delicatamente la sua mano a chi saprà riconoscerla.

Il declinante Occidente, la decadente Europa, la disarticolata umanità sono manifestazioni diverse della stessa malattia dell’anima che per essere vinta necessita del solo farmaco che si conosca: il riconoscimento della sacralità della vita che sola può garantire il risveglio della sapienza quale chiave dell’equilibrio indispensabile per poter vivere conformemente ai bisogni reali dell’uomo. Il resto appartiene alle illusioni della modernità tra le quali affoghiamo le nostre avide pretese di immortalità.


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