Paolo Flores d’Arcais ha già deciso che chi non sta con la Fiom di Maurizio Landini, oggi in piazza Roma assieme a Stefano Rodotà e Gino Strada, ha scelto automaticamente l’Italia “dei caimani, della prevaricazione e della menzogna santificate a sistema, che ci trascina nel baratro”.
Sta di fatto che la manifestazione promossa dai metalmeccanici nella Capitale, per dire no alle politiche di austerità in tutta Europa, potrebbe tramutarsi nel battesimo di una nuova cosa. Proprio quando abbondano simili locuzioni che richiamano poi a diverse angolazioni (cosa giusta, cosa rossa, cosa nuova, senza dimenticare la cosa bianca di qualche anno fa), oggi si alterneranno sul palco nomi vari e coriacei di quell’intellighenzia italiana critica col sistema e che trova il proprio habitat naturale tra le pagine di Micromega: Marco Travaglio, Giancarlo Caselli, Giorgio Cremaschi e Andrea Camilleri.
Dalla Fiom rivendicano che la scelta di non intervenire sulle cause della crisi ha determinato che il 10% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, con la certezza che “i responsabili hanno quindi continuato ad aumentare le proprie rendite”, mentre di contro le “banche hanno ridotto il credito e investito in titoli spazzatura e la Confindustria ha puntato sulla cancellazione”. Il leit motiv parte dalla cancellazione dell’articolo 18, dalla deroga a contratti e leggi, passando per il taglio della spesa sociale, la chiusura di ospedali, scuole e università. Mentre, sostengono, il paese continua a esibire il guinness dell’evasione fiscale e della minore tassazione delle rendite finanziarie.
Ma il punto è un altro. “Quello cui abbiamo assistito – ha detto il sottosegretario all’economia Stefano Fassina in una conversazione con il Foglio – è stata la fine del compromesso socialdemocratico, keynesiano, rooseveltiano o come si vuole chiamarlo, attorno alla metà degli anni ’70, e un processo di regressione delle condizioni del lavoro. I dati sugli Stati Uniti sono chiari”. Ma senza volgere lo sguardo oltreoceano è sufficiente guardare in casa nostra per certificare lo stato delle cose. Su cui però Fassina mostra di diagnosticare problemi nuovi con le famose lenti del passato. Quando osserva che “possiamo fare tutte le liberalizzazioni che vogliamo, levare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, licenziare centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, ma una democrazia delle classi medie come quella che abbiamo costruito nella seconda metà del Novecento non la ricostruiamo”, disegna una certa arrendevolezza ideologica che va bilanciata con innovazioni e riforme.
Quelle stesse riforme strutturali (professioni, albi, privatizzazioni, monopoli, solo per fare qualche esempio) che una classe dirigente responsabile, anche con lo stimolo puntuale e non compiacente di una stampa attiva, può e deve mettere in campo oggi come condicio sine qua non della sopravvivenza italica. Anche per sgombrare il campo da vecchie macerie di marca novecentesca che non possono fisiologicamente essere la medicina per il malato grave italiano. Piaccia o meno alle “cose”nuove.
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