In questo Parlamento di studenti fuori corso (molto azzeccata la battuta di Giuliano Amato), di esponenti della società civile pieni di sé ed assatanati di poltrone e strapuntini assai più degli inverecondi “politici”, di disoccupati organizzati e di persone che della loro incompetenza hanno fatto una qualità e una mission, da tutti i settori dell’emiciclo si leva ormai un solo grido, che rimbalza sui banchi del governo, di lì raggiunge gli scranni più alti della presidenza e si trasfonde nelle risoluzioni e negli atti votati a grande maggioranza: basta con l’austerità!
Pare addirittura che, col permesso di “Fratelli d’Italia”, all’Inno nazionale verrà aggiunta, subito dopo il rataplan, la frase di una canzone di Lucio Dalla: “Sarà due volte Natale e festa tutto l’anno”. Nella maggioranza, i partiti che la compongono stanno dimostrando che Enrico Letta, nelle comunicazioni sulla fiducia, aveva ragione almeno su di un punto: non è impossibile che partiti divisi sulla “politica” trovino un’intesa sulle “politiche”.
In effetti, non ci hanno messo molto il Pd e il Pdl a parlare lo stesso spensierato linguaggio per quanto riguarda le politiche del lavoro e del welfare. Dal canto suo, Scelta Civica sta seduta al tavolo del potere, ammutolita ed impotente, pronta alla penitenza per farsi perdonare le riforme di Elsa Fornero (e con esse la breve stagione del governo Monti) come se avesse dimenticato che era dovuto a quelle leggi (e non al loden del Professore) il recupero di credito dell’Italia sullo scenario europeo ed internazionale. E’ vero. Non è risolta la questione dell’Imu, anche se si va verso una sospensione della rata di giugno ed un “superamento” di quest’imposta. Il destino dell’Imu sembra segnato; rimane in campo un gioco tattico di tempi e di modi su cui speculano gli avversari dell’attuale formula di governo.
A tal proposito, è singolare il voltafaccia della stampa e dei talk show televisivi urlati, che, durante il 2012, per dare addosso all’esecutivo di Monti, dipingevano l’Imu alla stregua di un flagello di Dio, di un balzello che gettava le famiglie sull’orlo della disperazione e della rovina. Oggi quelle medesime prefiche (nel senso proprio di persone assoldate apposta per piangere) ne parlano con fastidio e con tanta puzza sotto il naso. Le somme da sborsare che, qualche mese fa, venivano descritte come rapine a mano armata da parte dei funzionari di Equitalia, si sono trasformate, d’incanto, in oboli modesti. Insomma, pur di fare dispetto al Cavaliere, gli assatanati di Ballarò e dintorni sono diventati rigoristi.
Convinti come siamo che sull’Imu – se la “politica” non ucciderà il governo nella culla – si troverà una soluzione, rivolgiamo l’attenzione ai temi delle pensioni e del lavoro. Lungi da me l’intenzione di difendere le due riforme in blocco. Non l’ho mai fatto, anche quando ricoprivo altri ruoli e ho lavorato duramente per apportarvi delle modifiche. Nel combinato disposto di quei due provvedimenti, tuttavia, vi è liaison che deve essere difesa nella sostanza, perché è il segnale della svolta che il nostro Paese attendeva da anni. Lì sta il contenuto di innovazione che il ministro Elsa Fornero ha lasciato dietro di sé, nel tentativo di interrompere la prassi di usare il sistema pensionistico (tramite l’accesso precoce al trattamento di anzianità assunto quale sbocco e prosecuzione di un percorso di anni all’interno della rete degli ammortizzatori sociali e degli incentivi alla risoluzione consensuale del rapporto) al servizio dei processi di riconversione e ristrutturazione produttiva.
Una prassi abusata ma divenuta insostenibile, perché in palese contrasto con l’esigenza di elevare l’età pensionabile effettiva, di garantire un minimo di equilibrio nei sistemi pubblici a ripartizione (in conseguenza dell’evoluzione delle dinamiche demografiche e delle loro ricadute sul marcato del lavoro), nonché di assicurare che i risparmi sulla spesa pensionistica concorrano al risanamento dei conti pubblici (si saranno accorti i cultori della statistiche che la spesa pensionistica è arrivata al 16,8% del Pil?).
Sulla sponda opposta a quella dell’intervento sull’età pensionabile (l’anzianità è stata “ferita a morte” dalla riforma) si trova l’istituzione dell’Aspi, che, a regime, semplificherà e ridurrà i periodi di copertura degli ammortizzatori sociali. Ecco dunque i temi cruciali delle riforme: gli stessi che ne costituiscono, nel medesimo tempo, i punti di forza e di debolezza. Non a caso, le critiche si sono concentrate proprio sul trait d’union tra pensioni e mercato del lavoro per quanto riguarda il tormentone degli “esodati” gonfiato, anche sul piano mediatico, ma che ha richiesto onerosi interventi di salvaguardia per la bellezza di 9,3 miliardi in un decennio.
Sta bene modificare e correggere, ma a fronte di quali alternative? La questione di fondo è quella di decidere se tutto dovrà tornare come prima, per anni e per centinaia di migliaia di persone, trasformando la riforma delle pensioni in una impalcatura severa in Europa ma “gattopardesca” in Italia; oppure, se potrà essere spezzato quel legame perverso ed oneroso nella gestione del personale anziano, i cui meccanismi sprecano capitale umano e risorse pubbliche. Il ruolo degli ammortizzatori sociali, dei servizi per l’impiego, della formazione è dunque decisivo per cambiare passo e abitudini.
Nella legge 92/2012, il ministro Fornero ha abbozzato una via alternativa grazie alle politiche attive, all’Aspi e all’istituzione dei fondi di solidarietà. Ma il potente neo presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ha gettato la spada di Brenno sulla prossima politica del lavoro: tutela ad oltranza degli esodati non solo di quelli rimasti intrappolati dalla riforma entro il 2011, ma anche di quelli futuri attraverso il ripristino dei trattamenti di anzianità; rinvio dell’entrata in vigore dell’Aspi. Quanto alla legge sul lavoro, sui contratti a termine si possono fare operazioni ben più serie della riduzione dei periodi di intermezzo (a cui ha già pensato la contrattazione collettiva).
Se si vuole attuare una misura incisiva si elimini il “causalone” nell’ambito di tutti i 36 mesi di durata massima dei rapporti a termine e si superi questo limite nella somministrazione. Ci sono, poi, nella legge Fornero parti non applicabili, come i criteri che consentono di definire la corretta titolarità di partite Iva. Poi, se proprio si vuole essere riformisti, sarebbe il caso di mettere mano nella confusa disciplina del licenziamento individuale. In materia, merita di essere segnalato il disegno di legge presentato da Scelta civica (rectius: da Pietro Ichino) che, per quanto sia contorto, macchinoso ed oneroso per le imprese, cerca almeno di dare una risposta “in avanti” al problema non risolto della flessibilità in uscita quale momento di compensazione di maggiori garanzie in entrata.
Il resto, come diceva un noto cantante recentemente scomparso, “è noia”.