Il governo Letta sarà chiamato ancora una volta ad una sorta di prova del fuoco: nuova legge elettorale subito o solo al termine del processo di riforma costituzionale?
Non si tratta di una questione di pura astrazione tecnico-istituzionale, perché anche in questo caso è sostanzialmente in gioco la natura stessa del governo in carica.
Come lo stesso presidente Enrico Letta ha detto, quello in carica è un governo di servizio, ossia qualcosa di intermedio tra un puro e semplice governo di “stato di necessità” – con conseguente durata molto breve per il governo – e la prospettiva di un governo delle “larghe intese” – che comporta un tempo molto lungo per la vita del governo.
Fin dalla nascita del governo, vi è stata infatti una qualche oscillazione – non solo tecnica – che ha finito con il rappresentare la stessa cornice politica entro la quale è stato costruito il governo in carica.
Gli oppositori (palesi e occulti, immediati o a scoppio ritardato) del governo in carica hanno infatti una idea chiara di cosa sia un governo di necessità, così come capiscono bene che un governo di “larghe intese” è conseguenza necessaria di un accordo politico tra i partiti che danno vita al governo medesimo.
Essi, al contrario di Enrico Letta, non sanno cosa sia un “governo di servizio”, almeno fino a quando resterà in carica il governo Letta medesimo.
Ne consegue che la vicenda stessa della legge elettorale finisce con il giocare un ruolo determinante per la natura stessa del governo.
Non basta infatti limitarsi a dire “mai più con il Porcellum”, perché è di tutta evidenza che altro è richiedere fin da ora una legge elettorale integralmente sostitutiva del Porcellum, altro è concorrere a definire una legge elettorale a valle del processo di riforma costituzionale, sia per quel che concerne l’intesa (peraltro tutta da definire) sulla cosiddetta fine del bicameralismo perfetto, sia per quel che riguarda l’eventualità di una forma di governo in senso presidenziale o semi-presidenziale, come dimostrano sia l’esperienza statunitense, sia la riforma francese introdotta da De Gaulle.
Appare pertanto di tutta evidenza che siamo in presenza di due posizioni strutturalmente eterogenee, quasi che si sia in presenza della violazione di quel principio di non contraddizione che almeno da Aristotele in poi ha rappresentato l’essenza stessa del nostro modo di ragionare.
In termini politici, pertanto, si è in presenza di un vero e proprio rischio di cortocircuito.
Chi chiede fin da ora modifiche complessive al Porcellum, finisce con l’essere sospettato di volere una durata breve del governo in carica e quindi in definitiva di rinunciare a riforme costituzionali particolarmente rilevanti per quel che concerne il sistema parlamentare e il sistema di governo.
Chi – al contrario – afferma di volere soltanto qualche ritocco formale del Porcellum lo fa asserendo di voler renderlo del tutto compatibile con la Costituzione vigente.
Si finisce pertanto con l’affermare di non ritenere proponibile una qualunque legge elettorale sostanzialmente diversa dal Porcellum prima delle riforme costituzionali concernenti quantomeno numero dei parlamentari, sistema parlamentare e forma di governo.
Le preannunciate mozioni parlamentari che dovranno indicare il percorso sostanziale e formale per le riforme costituzionali dovranno pertanto affrontare anche il nodo del cortocircuito potenziale tra Porcellum e riforme.
Siamo dunque in presenza di un vero e proprio nodo razionale e politico allo stesso tempo: principio di non contraddizione e durata del governo rischiano infatti di entrare in rotta di collisione.
Mai come in questa circostanza, lo stesso Enrico Letta è chiamato alla prova del saper dimostrare nei fatti che tra “stato di necessità” e “larghe intese” vi è proprio lo spazio del “governo di servizio”.
Ma anche in questo caso (come nel rapporto tra Iva e Imu) è molto difficile ottenere qualcosa di più della conquista di un qualche arco di tempo: i nodi si possono certamente rinviare, ma è ormai chiaro che prima o dopo occorrerà saperli sciogliere.