Una delle zavorre tutte italiane è il cosiddetto dossier dei mancati business. Quei potenziali introiti che, in virtù di atavici ritardi strutturali e soprattutto a causa di politiche ferme e per nulla propositive, semplicemente “migrano” altrove. Andando a rimpinguare altri Stati che, governati con maggiore lungimiranza ed efficacia, si sono sufficientemente preparati ad accoglierli.
È il caso delle attività che si affiancano al calcio professionistico, specificamente alla questione legata agli stadi di proprietà che, assieme alla cronica mancanza di liquidità dei club italiani, li sta condannando alla marginalità continentale, come dimostra lo scarso appeal del campionato italiano rispetto a quello tedesco, spagnolo e inglese.
Senza legge
A non essere più competitiva è la complessità del sistema-calcio. Mentre i club stranieri possono contare sull’indotto rappresentato dagli stadi di proprietà, in Italia nessun ministro dello Sport si è impegnato a sufficienza per condurre in porto la legge sugli stadi che avrebbe permesso ai club di poter incrementare la voce ricavi: allestendo una rete di attività parallele alla gara sportiva in sé, agganciando l’impianto all’area urbana circostante con riverberi positivi in termini di produttività, imitando il modello inglese o tedesco.
Stadi vuoti
In Italia gli stadi, tranne quello della Juventus (che è di proprietà del club torinese) sono vuoti, troppo grandi, senza le adeguate tecnologie energetiche, mal collegati, con il rischio di scontri per via delle frange più violente delle tifoserie che le società non riescono a contrastare: oggettività che producono svantaggi a catena. Lo scorso settembre l’Inter aveva quasi raggiunto un accordo di partnership con una multinazionale cinese per la costruzione dell’impianto a Milano: ma i manager di Pechino, appena avuta cognizione dei tempi e delle modalità burocratiche per le autorizzazioni, fecero marcia indietro.
Danno e beffa
Le conseguenze? Meno spettatori, meno nuclei familiari (che invece come accade altrove potrebbero trascorrere l’intera giornata nell’area “stadio”), indebitamento costante e progressivo delle società italiane, mancanza di competitività con gli altri team europei, scivolamento nelle classifiche Uefa che sono costate all’Italia un posto in meno per la partecipazione alla Champions League.
Esempio Bayern Monaco
Per una volta sarebbe utile guardare alla Germania senza invidia, ma con consapevole cognizione. I campioni d’Europa del Bayern stanno raccogliendo i frutti non solo di una qualità calcistica oggettiva, ma di una concentrazione professionale e programmata di politiche intelligenti. Come fatto nel precedente quinquennio dal Barcellona, anche i tedeschi hanno investito nel settore giovanile: elaborando un investimento che produce utili, ovvero giocatori formati da inserire in prima squadra o da cedere per realizzare plusvalenza. Di contro in Italia, uno dei settori giovanili più costosi e promettenti, quello dell’Inter, sforna talenti che la squadra di Moratti cede altrove. Vanificando tutto il lavoro fatto in precedenza e ottenendo un mancato introito per un giocatore che non vestirà la maglia nerazzurra. Ma non è tutto, perché quella cessione di giovani comporta sempre più acquisti di nuovi elementi, nonostante ad esempio i quattro-quinti della difesa della nazionale italiana under 21 sia di proprietà dell’Inter.
Organizzazione
La squadra che ha appena messo sotto contratto l’ex allenatore del Barcellona Pep Guardiola, per dirne una, prevede una ferrea ma scientifica organizzazione interna che consente di ospitare in occasione delle gare di campionato ogni volta un gruppo di tifosi di una città diversa. Con il doppio vantaggio sia di ricevere in una stagione intera la quasi totalità dei club sparsi per il Paese, sia di consentire al singolo gruppo presente per la partita di fare il “pieno” di gadget e magliette.
Ecco come nasce il business mancato dei club italiani: legge ferma, permessi biblici, squadre in rosso, mancata concorrenza con le altre compagini europee; settori giovanili non sfruttati. La grande occasione mancata dello sport come investimento. Ovvero il modello Barcellona che forse non ci sarà mai in Italia.
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