La maggioranza delle “larghe intese” non è soltanto chiamata ad affrontare la complessa sfida inerente al rilancio del volano dell’economia e della produttività, ma anche a un’altra, a suo modo altrettanto complessa e sempre persa dai predecessori negli ultimi trent’anni, quella delle tanto invocate riforme istituzionali.
Tentativi andati in fumo
Nel corso degli ultimi trent’anni troppi tentativi andati in fumo o conclusi con risultati scadenti (per quel che riesco a ricordare, la bicamerale Bozzi, poi Iotti-De Mita e poi D’Alema, la riforma delle competenze regionali del 2001, troppo parziale, contraddittoria e all’origine di continui contenziosi, l’ampia revisione costituzionale approvata dal Parlamento nella Quattordicesima legislatura, ma non confermata dal successivo referendum del 2006, la Bozza Violante della Quindicesima Legislatura). Una sequela di fallimenti la cui memoria non può non indurre alla demotivazione e allo scetticismo.
La sorpresa Letta
Ma solo qualche settimana fa, il premier Enrico Letta ha dichiarato, suscitando una certa sorpresa, che il Presidente della Repubblica non dovrebbe continuare ad essere eletto con il sistema tuttora vigente, previsto dalla Costituzione, richiamando, a dimostrazione che tale sistema non funziona, lo psicodramma dell’aprile scorso, quando le difficoltà di convergenza tra i diversi schieramenti sulle candidature emerse (Marini, Prodi, Rodotà, Cancellieri, ecc.) hanno indotto l’anziano Presidente uscente ad accettare una nuova candidatura, certo non desiderata e non cercata. Ma non sembra convincente l’idea che l’incapacità del Parlamento di eleggere un nuovo presidente possa attribuirsi alla procedura di elezione voluta dai costituenti. Le cause devono essere ricercate nelle divisioni interne ai partiti, nei veti incrociati, nella diffidenza e distanza tra i tre maggiori schieramenti.
Il semipresidenzialismo divide
La sortita di Letta ha così riacceso i riflettori sull’ipotesi semipresidenziale, in una fase in cui le riforme istituzionali sono ancora una volta all’ordine del giorno dell’agenda politica, con un comitato di saggi già al lavoro, per essere poi sottoposte al Parlamento che dovrà varare anche la nuova legge elettorale. Ma il semipresidenzialismo, cioè una nuova forma di governo, un’autentica transizione alla Seconda Repubblica, divide profondamente le forze politiche tra loro e al loro interno, non tutti sono convinti della necessità di determinare una così drastica discontinuità.
La posizione del centrodestra
Il centrodestra non ha mai nascosto la sua simpatia per questo modello sul quale è fondata la Quinta Repubblica francese, caratterizzata, da oltre mezzo secolo, da una discreta stabilità dei governi e da una riconosciuta funzionalità istituzionale. Due implicazioni virtuose del modello d’oltralpe che si sono rafforzate da dieci anni a questa parte, con l’allineamento delle scadenze delle elezioni presidenziali con quelle dell’Assemblea Nazionale che favorisce la duplice vittoria del medesimo schieramento in ciascuna delle due consultazioni quasi simultanee, scongiurando quasi del tutto l’eventuale necessità di ricorso alla cosiddetta “coabitazione” che infatti, dal 2002, non si è più verificata.
Le diffidenze
Da noi tale sistema suscita diffidenze e resistenze viscerali, poiché comporterebbe un’ampia revisione dei ruoli del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio, come anche dei meccanismi di bilanciamento dei poteri. Questo per tacere delle fobie su possibili derive autoritarie che si evidenzierebbero soprattutto in talune aree della sinistra, in relazione al peso eccessivo che rivestirebbe il Capo dello Stato, organo di indirizzo politico, capo dell’Esecutivo, eletto direttamente dai cittadini. Pensiamo, ad esempio, al potere di scioglimento delle camere o di indizione di referendum, in capo a un organo non più di garanzia, ma politico. Ancor più della deriva autoritaria, poi, questi segmenti della politica nazionale paventerebbero la possibile candidatura di Berlusconi a quella carica!
Le conseguenze
Le perplessità investirebbero anche le complesse implicazioni tecniche: l’introduzione del sistema semipresidenziale comporterebbe una revisione molto “invasiva” della seconda parte della vigente Costituzione, oltre al sistema di elezione del Capo dello Stato – investitura popolare e non più parlamentare – verrebbero ampiamente modificate le funzioni e i poteri dello stesso, che diventerebbe una figura di parte, rivestendo appunto un ruolo politico! Ne deriverebbe una ridefinizione a cascata di istituti e procedure, dalla nomina dei giudici costituzionali alla presidenza del Csm, dalla concessione della grazia alla nomina dei senatori a vita, fino al ruolo del Primo Ministro, parzialmente subalterno, a questo punto, al Presidente della Repubblica, ma anche vincolato alla fiducia del Parlamento e quindi alla maggioranza che sia emersa dalle elezioni legislative. Un modello che nell’esperienza francese ha garantito stabilità di governo e una presidenza autorevole sul piano interno e internazionale, pur bilanciata da adeguati contrappesi e che è stato parzialmente ricalcato da alcune giovani democrazie dell’est europeo (Romania e Croazia, oltre alla Russia, benché alla luce degli eventi degli ultimi anni la natura democratica del suo sistema sia pesantemente posto in discussione, ma questa è altra storia). In Italia il semipresidenzialismo ha riscosso il sostegno di Sartori e trova oggi il consenso del centrodestra e anche di costituzionalisti di sinistra come Ceccanti e Barbera.
Uno scenario improbabile
Il ricordo del fallimento inglorioso della riforma costituzionale approvata nella XIV° legislatura (2001-2006), che prevedeva modifiche molto meno incisive in virtù delle quali il sistema sarebbe rimasto nel solco del regime parlamentare, in sostanza una sorta di cancellierato o di “premierato forte”
(ma non troppo), rende tuttavia pessimisti rispetto a una riforma in senso addirittura semipresidenziale, considerando peraltro che il quadro politico attuale appare ancora più complesso rispetto a quello del 2005 e che la dialettica parlamentare non si svolgerebbe più tra due coalizioni sufficientemente compatte, ma almeno tra 6 formazioni – Pd-Pdl-5 Stelle, Scelta Civica, Ssel, Lega – tutte ormai sganciate da vincoli di alleanza preferenziale – a parte quella necessitata tra Pd, Pdl e Scelta Civica che sostiene il governo Letta – e pienamente autonome l’una dall’altra. Non sembrerebbe semplice l’impresa, al momento.
Piccoli passi
Sul tema sarebbe forse più prudente procedere con la strategia dei piccoli passi e del basso profilo. Superando innanzitutto il bicameralismo e legando una camera agli enti locali e alle regioni e l’altra – e solo quella – al governo centrale attraverso il voto di fiducia. Con questo assetto potrebbe rivelarsi compatibile la previsione di sistemi elettorali diversi per le due camere che potrebbero a questo punto essere elette anche a scadenze non coincidenti e restare in carica per un diverso numero di anni, come avviene in Francia. Quanto all’esecutivo, una volta limitato ad una sola camera il rapporto fiduciario, troverebbe probabilmente una sua stabilità con l’introduzione della mozione di sfiducia costruttiva che eviterebbe le crisi al buio e le imboscate avventurose che spesso hanno segnato la nostra storia repubblicana. Tale stabilità sarebbe favorita da un sistema elettorale che conservasse un carattere maggioritario, rendendo palese, per quanto possibile, vincitore e sconfitto all’indomani delle elezioni.