Pubblichiamo un’analisi del fondatore di Formiche, Paolo Messa, uscita oggi sul quotidiano Europa.
Una mozione parlamentare rischia di compromettere non solo la tenuta del gruppo parlamentare del Partito democratico ma anche la percezione del nostro Paese nell’ambito strategico delle relazioni con i nostri alleati in materia di difesa. Il documento sottoscritto da numerosi deputati per recedere dagli impegni relativi al programma F-35 ha piena legittimità formale e sostanziale. Le assemblee elettive hanno tutto il diritto, e anche il dovere, di esprimersi su questioni che attengono alla sicurezza dentro e fuori i propri confini. Il piano di acquisto di mezzi aerei da combattimento di ultimissima generazione non è solo un argomento che interessa il ministero della Difesa (soggetto che compra) e l’azienda privata Lockheed Martin (soggetto che vende). Il tema riguarda l’Italia più in generale e ben venga quindi la discussione. A condizione però che si discuta del merito della policy di governo e non si utilizzi invece il carico retorico-demagogico di questa issue per bieche ragioni di politics, di politica internissima.
Discutere di F-35 significa ragionare su un lungo percorso fatto di mediazione, di lavoro per le nostre imprese – altro ne arriverà una volta che il ciclo produttivo sarà a regime – di crescita del know how militare e tecnologico del Paese, di rafforzamento sul mercato internazionale dei nostri “campioni nazionali” (Finmeccanica con Alenia Aermacchi in primis), ma anche delle piccole e medie imprese dell’indotto. In un momento di forte crisi economica rinunciare a questo programma inaridirebbe ancora di più la nostra fragile economia e in particolar modo in un settore, come quello aerospaziale, ad alto valore aggiunto, portatore non solo di reddito a breve termine, ma in forte espansione nell’immediato futuro.
I presupposti per una marcia indietro francamente non sembrano reggere: questi velivoli, contrariamente a quanto riportato nel testo della mozione, non trasporteranno ordigni nucleari; il programma non vede defezioni importanti (anzi, oltre alla recente partecipazione del Giappone, altri come Germania, Belgio o Spagna si apprestano a entrarvi); e infine i presunti risparmi tanto declamati (facendo finta di non cogliere che si tratta di un impegno distribuito in più anni) non tengono conto della necessità di dotare – comunque – le nostre forze armate di aerei da combattimento. L’effetto paradossale della mozione potrebbe essere infatti quello di non comprare mezzi dei quali siamo partner tecnologici e industriali (con le citate ricadute per le imprese nazionali) ma di dover poi ricorrere all’acquisto di velivoli terzi con costi uguali o superiori ma senza alcun beneficio.
Il Parlamento avrebbe buone ragioni per capirne di più e meglio. Potrebbe convocare nelle commissioni competenti i dirigenti della Lockheed Martin e chiedere loro conto sia degli aspetti militari che industriali che finanziari. Le forze politiche potrebbero chiedere che il lavoro di analisi dei costi e dei benefici venga realizzato dal ministero della Difesa attraverso un soggetto indipendente e dalle competenze certificate. Insomma, non sono in gioco peanuts e quindi meglio attenzioni in più che in meno. Guai però a farne, come pure sembra, una questione ideologica.
Se così fosse, se così è, al Partito democratico converrebbe affrontare il voto sulla mozione con la conseguente consapevolezza. In gioco non c’è la partecipazione ad un programma internazionale per la difesa ma il baricentro politico della formazione politica retta da Guglielmo Epifani. Chi sostiene il documento fortemente voluto da M5S immagina una grande coalizione con grillini e Vendola. Nulla di male o di strano. Il dubbio è: ha senso anticipare un tema congressuale e farlo mettendo in gioco la credibilità del Paese (e del Pd) dinanzi agli alleati internazionali? Mettere di fatto in discussione, come sembrerebbe guardando anche alla vertenza siciliana del Muos, l’adesione al Patto Atlantico ha senso per il Pd, tanto più nell’anno domini 2013? La mozione sugli F-35 rischia di essere un referendum sul partito (e sul governo). E’ una provocazione che, da questo punto di vista, forse varrebbe la pena di rifiutare.