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Elezioni in Iran nel solco della conservazione

Pubblichiamo l’articolo uscito sul dossier “Turchia in fiamme, Iran al voto, enigma cinese di Obama” di Affari Internazionali

Gli analisti di politica internazionale attribuiscono grande importanza alle presidenziali del 14 giugno in Iran. Una questione evidentemente non solo interna, ma con inevitabili riflessi regionali e globali. La prospettiva elettorale sembra delinearsi nel solco della conservazione, nel senso di una tendenza involutiva. Essa mira a superare l’esperienza della leadership incarnata da Ahmadinejad, sostenuta e riconfermata nel più recente passato a tutela del regime degli Ayatollah minacciato dalla rivoluzione verde del 2009, ormai inspendibile e inaccettabile nelle sue derive scissioniste ed eterodosse.

Di qui, l’esclusione del delfino di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashai dalla contesa presidenziale da parte del Consiglio dei Guardiani. Una direttrice che è stato a fortiori altrettanto logico vedere declinata nell’estromissione dell’ex presidente riformista Akbar Hashemi Rafsanjani.

Fine a se stesso

Questa conservazione è diventata il vero e unico obiettivo politico del regime. Obiettivo che trascende la stessa gestione del potere e qualsiasi finalità interna o esterna essa possa prefiggersi. Un paradosso, forse, che si spiega con l’involuzione di un potere che ha perduto lo slancio e le motivazioni ideali della rivoluzione del 1979.

E che non sembra in grado di intercettare i mutamenti e le legittime aspirazioni di una società di 70 milioni di cittadini, dalla vivacissima articolazione sociale e culturale, per più di un quarto composta da giovani al di sotto dei 25 anni e oggi confrontata con le conseguenze di sanzioni, isolamento, crisi economica, disoccupazione, illiberalità. In una parola, con la gestione da parte di una leadership lontana culturalmente e dal punto di vista generazionale.

Che il vincitore sia Said Jalili, attuale negoziatore nucleare e candidato della Guida Suprema Khamenei, o Ali Akbar Velayati, suo consigliere di politica internazionale ed ex ministro degli esteri, non cambierà molto rispetto alla ferma volontà politica di preservare l’ortodossia di regime e fornirle amministratori che si differenziano solo per mere sfumature. Una sostanziale carenza di reale confronto che si tradurrà in un elevato astensionismo.

La partecipazione al voto e altri segnali che potranno derivare dalle urne saranno capaci di farci comprendere quanto saldo sia ancora il regime. E quanto valida la sua retorica, che da ultimo si è spinta a dichiarare che le sanzioni occidentali starebbero provocando non voluti effetti benefici ad un’economia che registra in realtà iperinflazione, assottigliamento delle riserve in valuta estera, aggravamento del deficit di bilancio, incapacità di differenziazione industriale rispetto al prevalente settore petrolifero.

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Giovanni Castellaneta è presidente di Sace


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