Concentrare tutte le attenzioni sulle regole da dare alle lobby italiane – il leitmotiv da 3 settimane a questa parte – oltre ad annoiare rischia di farci perdere di vista il quadro generale di riferimento. E cioè rischia di far dimenticare il lobbying per quello che è, un’attività “a tutto tondo” nel sistema economico e produttivo alla quale prendono parte in due, uno pubblico e l’altro privato. Quadro che peraltro, nel nostro caso, è davvero generale, nel senso che coinvolge tutta la produzione italiana, a tutti i livelli, dal piccolissimo alla multinazionale.
Un dato interessante per esempio riguarda la capacità del Paese di attrarre investimenti stranieri. Diciamo così, la capacità del Paese di trasformarsi in “oggetto di lobby” da parte di aziende straniere. Essere lobbati conta. L’indice degli investimenti esteri – oppure, invertendo la visuale, dell’attrattività del Paese – è un termometro importante della salute economica e istituzionale. A maggior ragione in un Paese come il nostro, povero di materie prime, in cui prevale il terziario, e dove di conseguenza la capacità di attrarre investimenti è figlia della buona salute del circuito economico e della burocrazia. Dato che, letto in chiave lobby, significa capacità del “potere pubblico” di intrattenere relazioni sane e vantaggiose con i partner stranieri.
Prendiamo il caso della prima economia al mondo. Quello degli Stati Uniti è un esempio interessante per tanti motivi. Anzitutto perché la percentuale di investimenti esteri degli Usa diretta in Europa è andata crescendo sensibilmente negli ultimi venti anni. Ma questa crescita non è stata omogenea rispetto ai Paesi europei. E qui viene la parte intrigante. Stando ai dati che la American Chamber of Commerce in Italy (la sede è a Milano, il sito è Qui) ha pubblicato di recente negli ultimi 12 anni è andata nettamente crescendo la quota degli investimenti statunitensi diretta verso paesi di minore dimensione e forte vocazione internazionale degli intermediari bancari e finanziari (e quindi Belgio, Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Austria, paesi scandinavi), a scapito delle altre destinazioni, tra cui l’Italia.
Ecco, appunto, l’Italia. Il rapporto annuale del Politecnico di Milano (si chiama “Italia multinazionale” e lo trovate Qui) ci dice che negli ultimi 10 anni gli investimenti diretti Usa nel nostro Paese non sono aumentati tanto quanto avrebbero potuto. E si sono spostati. Hanno cioè abbandonato il manifatturiero (settore con grande potenziale attrattivo) a favore delle utilities, delle costruzioni e dei servizi professionali. Gli investimenti diretti provenienti dagli USA pesano oggi su più del 22% del fatturato e quasi il 27% dei dipendenti delle affiliate estere in Italia (mentre per le sole industrie manifatturiere rispettivamente 31% e 29%).
Da cosa dipendono il cambio degli equilibri e, soprattutto, la preferenza degli investitori verso altre realtà europee? Per trovare una risposta la AmCham ha fatto un’indagine tra 33 affiliate statunitensi in Italia (la trovate Qui). Ecco cosa ci dice la survey:
– Primo, tra i fattori negativi ci sono la bassa qualità delle istituzioni pubbliche (in particolare l’inefficienza della giustizia civile), il regime fiscale, il costo e la flessibilità del lavoro, le infrastrutture di trasporto e di rete web, il costo dell’energia, le inadeguate politiche pubbliche per l’attrazione degli investitori.
– Secondo, tra i fattori positivi ci sono invece la qualità del capitale umano, la rete di fornitori, la capacità innovativa delle imprese.
– Terzo, dove bisogna intervenire? Le indicazioni degli intervistati vanno in tante direzioni, ma ce ne sono tre sulle quali vale la pena concentrarsi. Uno, al governo si consiglia di agire con la massima urgenza sulla qualità del personale pubblico specializzato preposto all’amministrazione fiscale. Due, si propone l’organizzazione di uno sportello unico per il disbrigo burocratico di tutte le pratiche (autorizzazioni, concessioni, visti). Tre, e fondamentale, si chiede la possibilità di confronti diretti con le Amministrazioni nazionali e locali sulle prospettive di politiche industriali.
Dunque, ricapitolando. Gli investitori a stelle e strisce considerano ancora il nostro Paese come una meta interessante per investire. Ci sono buone risorse e discreta capacità di innovare. Purtroppo però c’è una burocrazia fatta di lungaggini incomprensibili per chi viene da un sistema, quello Usa, dove la semplicità del fare impresa è un principio granitico che sorregge un sistema brutalmente competitivo. Per questo servono misure che incentivino una migliore capacità di ascolto delle amministrazioni, anche attraverso confronti diretti.
Eccoci tornati al punto di partenza. Cerchio chiuso. Parliamo tanto delle buone regole da dare al lobbying. Ed è un bene che queste regole arrivino prima o poi (e arriveranno). Ma osserviamo solamente un lato della medaglia. Non c’è solo il fare lobbying, c’è anche l’essere “lobbati”. E cioè la predisposizione a interagire con chi ha voglia di spendere soldi da noi, ma lo fa solo se trova condizioni accettabili e “fertili” per la sua idea.
La fregatura è che per questo non basta un DDL sulle lobby. Serve una politica di riforma radicale della competitività delle nostre amministrazioni.