Da quando le analisi sull’Iran non sono più dominate dal dualismo fittizio tra conservatori e riformisti, quando arrivano le presidenziali si parte dicendo che sono inutili, una selezione piuttosto che un’elezione, anzi di più, un’investitura diretta da parte di Khamenei. Il che è vero, verissimo e tuttavia, per quanto possa apparire paradossale, anche queste elezioni inutili hanno una loro utilità.
Lo ricorda Dennis Ross (già inviato speciale in Medio Oriente e consigliere di Bill e Hillary Clinton) in un articolo su Foreign Affairs intitolato “Don’t discount the Iranian elections” e lo dimostra il secondo dibattito elettorale tra gli otto candidati in onda oggi sull’Irib, la tv di stato. Assodato che il voto iraniano è una scelta tra il male e il peggio, le disquisizioni sulla società, l’arte e la cultura tra i presidenziabili dell’establishment sono un illuminante compendio – a tratti drammatico, a tratti esilarante – delle fragilità e delle idiosincrasie del nezam, il regime come lo chiamano gli iraniani. Bisogna ovviamente saper decodificare il linguaggio dei papabili e pazientare tra condoglianze, rimembranze e citazioni di martiri (il consuocero di Khamenei Gholam Alì Haddad Adel è andato avanti per 1 minuto e 40 secondi a elencarli quando aveva 4 minuti a disposizione per rispondere ad una domanda) e metafore letterarie (“la nostra cultura è come una cascata” sempre l’insuperabile Haddad Adel) per arrivare al candore con cui il favorito Said Jalili spiega con il piglio di un funzionario bolscevico che “l’arte per l’arte non esiste, l’arte deve servire il paese”, occorre respirare profondamente quando Ali Akbar Velayati fa una lezione di ortodossia rivoluzionaria come se insegnasse a studenti ripetenti: “il prossimo governo mostrerà al mondo cos’è un governo islamico ideale….” e superare la delusione per un Mohsen Ghalibaf che sa essere arguto, ma stavolta è astruso più che mai perché la cultura non è cosa per lui, per arrivare infine all’enigma politico del momento, l’ex negoziatore nucleare Hassan Rouhani che giganteggia su tutti con una lista dei sogni che nemmeno un Mohammed Khatami d’antan avrebbe saputo articolare meglio. Parla di studenti intimiditi ed emarginati, e ammonisce “ in Iran ci sono persone che abitano dentro un recinto mentale davvero stretto e condannano chiunque la pensi diversamente”. Ricorda: “non possiamo ignorare la cultura globale, siamo parte del mondo”, insiste sulla libertà d’espressione: “la censura uccide la creatività”, invoca la fine delle intromissioni dello stato nelle vite private degli iraniani, cita il Nowruz, l’anno nuovo zoroastriano insieme alla festa sciita dell’ Ashura e sottolinea: “l’identità iraniana è variegata non deve essere appannaggio di pochi”.
Nel frattempo, Haddad Adel ammette imbarazzato di aver intravisto Farsi 1 (la tv di Murdoch visibile attraverso il satellite che in Iran sarebbe vietato), Mohammed Gharazi commette l’errore fatale di certi professori che vanno in tv: legge dati e statistiche per minuti interminabili, Ghalibaf e Velayati scompaiono, su Jalili si posano i pensieri degli iraniani che si chiedono come faccia Catherine Ashton a sopportarlo e il povero Mohammed Reza Aref che dice cose simili a Rouhani, ma con minor sapienza, viene commentato più per la pettinatura che per le sue tesi. Così, il “candidato moderato” Rouhani domina il dibattito, come se in una vita precedente non fosse stato un solerte censore, come se perorare la causa del riformismo dall’alto in tempi di “politica epica e della resistenza” (copyright Khamenei) fosse ancora possibile, come se evocare sogni dopo quattro anni di crisi, di sanzioni, di paura di strike e ricordi terribili dell’estate del 2009 bastasse a suscitare una reazione popolare per costringere Khamenei a capitolare. Non è questa, naturalmente, l’utilità delle elezioni inutili.