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Perché l’accordo Confindustria-sindacati è buono

E’ sicuramente importante l’accordo tra Confindustria e sindacati sulle regole della rappresentanza e della rappresentatività a valere per la stipula dei contratti nazionali di lavoro.

Perché lo si possa definire anche ‘’storico’’ occorrerà vederlo applicare nella quotidianità delle relazioni industriali, dal momento che l’intesa sottoscritta ripete sostanzialmente quanto già convenuto (fino a ora disatteso) dalle medesime parti nel protocollo del 28 giugno 2011 e in altri documenti successivi tra cui, da ultimo, l’accordo sulla produttività dello scorso 24 aprile.

E’ già capitato più volte di assistere a una falsa partenza e a un rinvio. Eppure, questa sembrerebbe la volta buona: lo stesso Maurizio Landini (sic!) ha rilasciato dichiarazioni favorevoli. Sull’isoletta sperduta, far la parte dell’irriducibile giapponese è rimasto, a quanto pare, il solo Giorgio Cremaschi che non è ancora pronto a godersi la pensione dopo una vita passata a svolgere il compito dello sfasciacarrozze nei metalmeccanici.

Merita, pertanto, una particolare attenzione la tenuta dell’adesione della Cgil soprattutto perché resta aperto un fronte alla sua sinistra (i Cobas, il sindacalismo di base e qualche movimento politico) che metterà l’accento – lo si è già visto nelle contestazioni a Susanna Camusso a Milano – sugli impegni che le confederazioni hanno assunto in tema di tregua sindacale, senza scostarsi troppo, in verità, da quanto già previsto nel celebre Protocollo Intersind-Asap che, nel  lontano 1962, aprì la strada alla contrattazione articolata.

L’accordo – lo abbiamo già ricordato – è la naturale prosecuzione di quanto già stabilito in precedenza, soprattutto nell’atto del giugno 2011, attraverso il quale venne superata la crisi determinata nei rapporti unitari dopo l’intesa separata del 22 gennaio 2009. Viene definita, per i sindacati, una soglia minima (sul modello del pubblico impiego) di presenza organizzativa per poter essere ammessi  al negoziato; sono previsti, in un mix certificato di iscritti e votanti, i criteri per valutare il tasso di rappresentatività delle federazioni di categoria; è stabilita una metodologia per sottoporre le piattaforme e gli accordi al voto dei lavoratori interessati, precisando che, se approvati a maggioranza del 50% + 1, i testi avranno valore anche per chi non ha condiviso quelle scelte.

Sul piano politico, va riconosciuto che il documento manda comunque un messaggio positivo, perché punta a costruire, ad opera di significativi soggetti collettivi, un “modus operandi”  stabilizzatore e condiviso in una fase in cui sono prevalenti, nel Paese, le spinte alla divaricazione, al conflitto, all’odio e alla rissa. Spinte che i sindacati, inclusa la Cgil, non intendono alimentare o coprire più di tanto. Sempre che sappiano resistere alle pressioni. In qualche misura – il nostro è un apprezzamento – hanno ragione quanti sostengono che l’accordo manda un segnale coerente con la formazione del governo delle larghe intese.

Rimane soltanto da valutare se le parti sociali –  nel momento in cui si andrà oltre l’aspetto della contrattazione nazionale per affrontare il tema della contrattazione decentrata – accetteranno di  avvalersi di quanto consente la legge (articolo 8 della legge n.148 del 2011) per rendere valide erga omnes le intese intervenute a quel livello.

Basterebbe che la Cgil rimuovesse il veto posto ad una norma (voluta dall’allora ministro Maurizio Sacconi) per compiere un passo decisivo in avanti anche sul terreno delicato e complesso della cosiddetta esigibilità della contrattazione di prossimità.

Persino la Ue, nell’atto stesso in cui ha chiuso la procedura d’infrazione per l’Italia, ha ribadito la necessità di rafforzare la contrattazione aziendale ai fini di una migliore remunerazione della produttività. E’ il caso, a questo punto, di recepire il testo dell’accordo del 31 maggio in una legge? Lo chiedono soprattutto settori della Cgil e della sinistra.

La nostra opinione non è favorevole a tale eventualità. Trasformando in legge un accordo privato (applicabile sulla base del principio del reciproco riconoscimento che ha sorretto tutto il sistema delle relazioni sindacali dal 1948 in poi, a fronte della mancata attuazione dell’articolo 39 Cost.) si corre il rischio di incorrere in un giudizio di incostituzionalità proprio perché il modello convenuto tra le parti non è il medesimo previsto dal citato articolo 39. Il che, se non crea problemi nell’ambito di accordi privati tra le parti, ne aprirebbe a fronte di un intervento legislativo.

Come ha insegnato l’esperienza Fiat, la questione della rappresentanza e della rappresentatività va risolta anche a livello decentrato. Il ricorso all’articolo 8 lo consentirebbe in modo adeguato. Se le parti intendono sottostare al veto contro quella norma imposto dalla Cgil, ignorando le opportunità loro offerte (il citato articolo 8, peraltro, sarà sottoposto a referendum abrogativo nel 2014) hanno comunque il dovere di indicare un’alternativa altrettanto valida per il secondo tempo del restauro di un modello di relazioni industriali, in grado di appartenere, se non proprio alla storia, almeno alla cronaca.

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