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Braccio di ferro tra “saggi”: presidenzialismo o parlamentarismo?

Sogni di un presidenzialismo di inizio estate? Il dialogo bipartisan è avviato.

L’impasse decisionale che affligge il Paese impone di non perdere altro tempo per le riforme: la sopravvivenza dell’Italia dipende nell’immediato dall’economia, ma già un minuto dopo dalle istituzioni, da istituzioni più efficienti e rispondenti alla società.

La Commissione dei 35 saggi e il Comitato dei 40 parlamentari inizieranno il loro lavoro prima che, come ammonisce il più giovane componente della Commissione Francesco Clementi “il vento dell’antipolitica seppellisca la nostra politica e, con essa, le nostre istituzioni democratiche”. I costituzionalisti sono in fibrillazione. La macchina del Parlamento si è messa in moto. L’opinione pubblica familiarizza (per l’ennesima volta; quella buona?) con le riforme. Resta solo da scegliere se proseguire con un parlamentarismo (corretto) o aprire al presidenzialismo.

Perché scegliere il sistema francese

La figura del presidente della Repubblica, negli ultimi anni, ha esercitato in maniera completa tutti i poteri che la Costituzione gli ha conferito: la formazione del governo Monti e il sostegno al giovane governo Letta ne sono una prova. “Che ai comportamenti facciano seguito le norme e i meccanismi” suggerisce il politologo Gianfranco Pasquino, modificando la forma di governo in senso semipresidenziale, con l’elezione diretta del presidente e direttamente responsabile del buon funzionamento del sistema di fronte al corpo elettorale.

Concorda con lui il costituzionalista Giovanni Guzzetta (promotore tra l’altro dell’iniziativa Scegliamoci la Repubblica), secondo il quale “la presidenza della Repubblica rappresenta il centro propulsore di quel poco di funzionalità che ancora residua nei nostri fragili meccanismi di governo” e l’alternativa del premierato “necessita, come dimostra il modello inglese, di un sistema di partiti solido e trainante”. Perché allora non approfittare dell’eccezionalità di Pd e Pdl nello stesso governo per sancire quello che la politologa Sofia Ventura definisce uno “scambio virtuoso tra doppio turno con collegi uninominali, caldeggiato dal Pd, e presidenzialismo alla francese, proposto dal Pdl”?

Altra questione spinosa, e legata al metodo, è la realizzazione in tandem delle riforme costituzionali e della legge elettorale. Si dovrà procedere contestualmente, oppure prima la legge elettorale e poi la modifica della Costituzione? La Quinta repubblica francese varò insieme le due modifiche. Senza coerenza con il disegno costituzionale, aggiustamenti alla legge vigente o il ritorno al Mattarellum o ancora il maggioritario a doppio turno potrebbero infatti dare un risultato altrettanto confuso di quello attuale. Tuttavia, come sottolinea Sofia Ventura, “tra le preoccupazioni vi è quella di portare a casa almeno un risultato (la legge elettorale) nel timore che i tempi più lunghi della revisione costituzionale possano bloccare ogni innovazione”.

Perché diffidare del sistema francese

Il rischio di paralisi politica negli ultimi anni è stato scongiurato grazie alla figura del presidente della Repubblica. La Costituzione l’ha voluta “terza”, capace di fare da ago della bilancia per trovare compromessi alti tra le parti in gioco. Caratteristiche che potrebbe perdere se venisse investito direttamente dal voto popolare. Luciano Violante, oggi membro della nuova Commissione dei Saggi, riconosce che il semipresidenzialismo è una via per costruire un rapporto più diretto e coinvolgente tra i cittadini e il capo dello Stato. Ma mette in guardia dai rischi: nelle democrazie come Stati Uniti e Francia infatti “il Presidente eletto direttamente è una delle parti del conflitto politico e questo rende il sistema particolarmente rigido perché non prevede un arbitro in grado di risolvere le crisi”. Soprattutto quando la maggioranza del Parlamento ha un colore diverso da quella presidenziale. La proposta di Violante è un rilancio del parlamentarismo, seppur con profonde correzioni che garantiscano al governo tempi certi per le deliberazioni del Parlamento sui propri provvedimenti, superino il bicameralismo paritario e modifichino il sistema per eleggere il capo dello Stato.

Il passato che non passa

Sull’Italia pesano comunque 30 anni di mancate riforme e di incapacità di superare le opposte barricate politiche. Uno sforzo necessario che, come sottolinea Augusto Barbera (anch’egli nominato nella Commissione dei 35) nella seconda Repubblica ha conosciuto due fallimenti, la Commissione De Mita-Iotti (1993-1994) e la bicamerale D’Alema (1997), ma il cui antecedente, la Commissione Bozzi (1983-1985), già conteneva proposte “largamente riesumate nel recente documento” dei 10 saggi scelti a marzo da Giorgio Napolitano.

Il costituzionalista bolognese ricorda una sua analisi fatta a un anno dall’uccisione da parte delle Br di Roberto Ruffilli, suo collega, seppur dall’altra parte della barricata (Dc), nella Commissione Bozzi. Il fallimento delle riforme, disse allora, apriva le porte a “un regime plebiscitario basato su personalità carismatiche, sull’influenza dei mass media e dei poteri occulti” e “sulla riduzione degli spazi per la politica”. Una diagnosi impietosa, che costringe a spogliarsi, almeno per il tempo necessario alle riforme, delle casacche partitiche per indossare quelle della Repubblica.

Per un approfondimento dedicato alle riforme, la rivista Formiche nel numero in uscita mette a confronto le posizioni di Augusto Barbera, Luciano Violante, Francesco Clementi, Sofia Ventura, Gianfranco Pasquino, Gaetano Quagliariello, Giovanni Guzzetta e Pino Pisicchio


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