Le elezioni sono più vicine. Le dimissioni del capo di gabinetto del ministro dell’Interno (consegnate ieri e accolte oggi) sono un fatto amministrativo ma hanno un valore politico enorme. Il prefetto Procaccini, nonostante alcuni ritratti agrodolci apparsi su alcuni quotidiani, è stato in questi anni uno dei più solidi pilastri del Viminale – e tanto più negli anni in cui l’ex capo della Polizia, il compianto Manganelli, era provato dalla malattia che poi lo ha stroncato.
Ad essere menomata, almeno all’inizio, non è solo l’attività di gestione di una delle macchine istituzionali più complesse e neppure l’orgoglio ferito di una classe dirigente fatta di alti funzionari e poliziotti. Il capo di gabinetto è, in generale e in particolare al ministero degli Interni, il più stretto collaboratore del ministro. Non ha compiti amministrativi diretti e nel contestato caso Ablyazov non ha fatto nulla (di pratico) se non aver dato l’imprimatur – chiaramente non a titolo personale! – all’operazione che poi ha dato luogo alla frettolosa espulsione della signora Shalabayeva.
Fermo restando la bontà della relazione consegnata dal Capo della Polizia e tutte le responsabilità specifiche che saranno accertate, è evidente che le dimissioni di Procaccini da un lato (nel brevissimo periodo) confermano la tesi di Alfano che lui non era stato informato delle azioni intraprese dai suoi più stretti collaboratori ma dall’altro rafforzano la tesi di chi ritiene che sia “unfit” un ministro che dovrebbe garantire la sicurezza nazionale interna e che neanche sa quello che accade nella stanza accanto alla sua.
Non si possono fare processi alle intenzioni ma nel momento in cui il governo al massimo livello, Enrico Letta. Emma Bonino e lo stesso Alfano, danno pieno credito alle accuse mosse dall’avvocato della moglie di Ablyazov è difficile se non impossibile sottrarsi alle conseguenze che ne derivano. La posizione di Repubblica che reclama la testa del giovane segretario del Pdl è sicuramente partigiana ma ciò non di meno appare rigorosissima e non contestabile.
Il Partito Democratico è drammaticamente allo sbando e si aggrappa alla stabilità del governo, proteggendo quindi il suo numero 2 Alfano. Pian piano però sta facendosi strada l’idea di poter decidere contemporaneamente il candidato premier e il segretario del partito (in due persone distinte). Se passerà questa linea, il ministro dell’Interno si ritroverà solo. Da oggi lo è di certo al Viminale. Domani, chissà, in Parlamento e probabilmente persino nel partito di cui resta azionista unico Silvio Berlusconi.