Leggendo le cronache internazionali (gli scarsi risultati dell’incontro di Barack Obama con il presidente cinese, la centralità di Vladimir Putin nel vertice del G8, l’insofferenza del “cortile di casa” – dal Nicaragua all’Ecuador – per la Casa Bianca sul caso Snowden, i malumori dei ceti medi dei Paesi emergenti a partire dal Brasile per i rischi di inflazione innanzi tutto alimentata da Abenomics non concordate con la Fed, i malesseri per l’egemonia americana manifestati sia pur a mezza bocca da Berlino, per finire con uno scompaginamento del Medio Oriente da Istanbul al Cairo non previsto da Washington) l’impressione che si riceve è uniforme: la politica estera degli Stati Uniti è entrata in sofferenza.
Certamente solo un osservatore superficiale potrebbe sottovalutare il peso americano: la magica Fed che guida l’economia mondiale con il suo uso della liquidità, la separazione tra estremismo islamista sunnita e sciita determinata dalla guerra in Irak del 2003, l’autosufficienza energetica nel giro di un decennio grazie a shale oil e shale gas, la modernizzazione dell’esercito realizzata da Donald Rumsfeld che consente grazie ai droni di colpire i terroristi anche senza eserciti di terra.
Questi sono alcuni degli elementi che fanno e faranno ancora per un lungo periodo di quella americana l’unica grande potenza globale. Ma nonostante questi fattori così pesanti, l’impasse della politica estera a stelle strisce è evidente. Dopo il 2008 diversi analisti, il Partito democratico e parti rilevanti della società americana si erano convinti che l’elemento essenziale per governare la fase post guerra in Irak, fosse il cosiddetto soft power, la capacità di egemonizzare quell’opinione pubblica globale che veniva definita “la nuova grande potenza”.
In questo senso l’elezione stessa di un nero alla Casa Bianca era stato un colpo formidabile, e a questa seguirono l’uccisione di Osama bin Laden, le primavere arabe, il decollo di economie in tante parti del mondo. A un certo punto maturò la convinzione che non serviva più cercare nuovi equilibri ma che bastava assicurare un flusso di novità magari destabilizzando Stati e classi dirigenti senza chiare prospettive, per orientare verso Washington la simpatia e dunque la disponibilità a collaborare con l’America dei vari Paesi della Terra.
Mentre i fattori di potenza, alcuni dei quali abbiamo enumerato, restano ben saldi; è la politica costruita per utilizzarli che mi sembra in grave difficoltà con il rischio che gli Stati che si sono fidati del soft power vadano in crisi, mentre quelli che si sono opposti e che in certi casi sono stati sottoposti a qualche iniziaitiva di destabilizzazione definiscano un ampio fronte di – moderata – contestazione.
In questo senso pare che Obama lanciando il complicato ma strategico obiettivo di un mercato unico transatlantico (qualche anno fa proposto da Parigi e Berlino) si renda conto che si debba passare dalla ricerca di sentimenti comuni – che magari lasciassero la mano libera a Washington – ad accordi ben meditati e mediati.
È questa una buona notizia innanzi tutto per un’Italia un po’ destabilizzata come il resto del Mediterraneo dallo scorrere del flusso del soft power: si apre oggi per noi lo spazio innanzi tutto per cercare di costruire uno Stato che abbia la relativa sovranità possibile nell’Unione Europea e nel mondo globalizzato, non dico proprio come quella tedesca, francese o inglese, ma almeno come quella polacca o spagnola.