Ricorre in questo mese il settantesimo anniversario del Codice di Camaldoli. Un evento che impegnò i laureati cattolici assieme ad alcuni intellettuali dal 19 al 26 luglio del 1943, nel ritiro del Casentino, per discutere di problemi sociali, di economia, di finanza secondo gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Il lavoro che ne scaturì fu, per certi aspetti, la conseguenza del radiomessaggio natalizio del 1942 che Pio XII rivolse a tutti gli uomini di buona volontà dei Paesi in guerra. Il punto centrale dell’allocuzione pontificia stava nell’auspicio che: “…la stella della pace spunti e si fermi sulla vita sociale, collabori ad una profonda reintegrazione dell’ordinamento giuridico”. Nessuno dei partecipanti a quell’assemblea immaginava di lavorare per un futuro partito di ispirazione cristiana nel sistema politico che sarebbe nato dopo la fine del “ventennio”, e nonostante circolassero insistenti voci sulla imminente decisione della monarchia di destituire Mussolini. Infatti, il 25 luglio il Duce fu fatto arrestare da Vittorio Emanuele III, mettendo così fine alla dittatura dell’ex direttore del giornale socialista l’Avanti!. L’assemblea di Camaldoli per ovvi motivi si concluse in anticipo. Gli animatori dello storico appuntamento furono mons. Bernareggi, vescovo di Bergamo, Vittorino Veronese presidente dell’ICAS(Istituto cattolico di attività sociale) con alcuni economisti, tra cui Sergio Paronetto, deceduto poco dopo, giovanissimo, Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno che caratterizzeranno i programmi socio-economici della Democrazia Cristiana nei decenni successivi, ispirando scelte significative riguardanti lo sviluppo del Mezzogiorno e l’organizzazione di un equo sistema tributario. Il documento riprendeva per certi versi esperienze simili, come l’importante Codice stilato a Malines in Belgio negli anni ’20 del XX secolo, elaborato dall’Unione internazionale studi sociali, presieduta dal cardinale Mercier. A Camaldoli non fu licenziato un protocollo con le caratteristiche di programma di partito, come lo furono le Idee Ricostruttive di De Gasperi, ma i contenuti andarono certamente ad arricchire il paradigma solidaristico degasperiano, contribuendo a specificare una visione più dinamica dell’intervento pubblico in economia. Il documento s’impose come punto di svolta della dottrina economico-sociale dei cattolici in politica, sancendo il passaggio dalle teorie della scuola sociale cristiana di fine ‘800 a quelle più moderne del XX secolo, che prendevano atto delle mutazioni avvenute con la rivoluzione industriale, con la crisi del 1929, con la seconda guerra mondiale, non solo in campo economico, ma in ogni settore della vita pubblica e privata.
Altri eminenti studiosi, i professorini: Dossetti, Fanfani, La Pira, Lazzati dell’università Cattolica di Padre Gemelli negli stessi anni, più o meno, riflettevano sul futuro assetto istituzionale e politico da dare al Paese, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra. Le loro considerazioni ruotavano attorno ad una semplice domanda: qual è il ruolo dei cattolici, vista la crisi sociale in atto? Le idee scaturite da Camaldoli e quelle partorite dal gruppo dei professorini furono fondamentali per la costruzione della democrazia nella libertà, non a caso permisero all’Italia di ripartire ed entrarono a far parte della Carta costituzionale. Ancora oggi resistono agli attacchi sconsiderati di molti innovatori di alta, media e bassa cucina. Il protocollo di Camaldoli, stilato dagli intellettuali cattolici, dimostra con quanta sobrietà culturale e rigore morale veniva svolto l’impegno prepolitico, che sarebbe poi diventato azione politica vera e propria. Le estemporaneità odierne di improvvisati, sbarbatelli e barbuti, “mosè” non erano consentite.
Il Codice di Camaldoli e i cattolici in politica
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