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Il decreto del fare burocrazia. Dal Wi-Fi al Durt.

Ci avevano raccontato che il Decreto “Fare” (o più propriamente Dl 69/2013) avrebbe semplificato la vita di cittadini e imprese. Ebbene, se si dovesse giudicare dagli emendamenti approdati in Aula a Montecitorio, dopo l’approvazione delle Commissioni Affari Costituzionali e Bilancio, non si direbbe, almeno in due casi eclatanti (per non parlare di diversi altri profili che ci lasciano perplessi).

Molto si è parlato negli ultimi giorni dell’assurda norma sul Wi-Fi, che nata nella versione originale per liberalizzare (almeno nelle intenzioni sbandierate ai quattro venti dallo stesso Ministro Zanonato, anche se per molti sarebbe stato forse meglio lasciare le cose come stavano), renderebbe sostanzialmente impossibile per gli esercenti offrire la connessione Internet gratuita ai propri clienti. Tanti e tali sono infatti gli oneri che si dovrebbero sobbarcare, dotandosi di nuove infrastrutture e soprattutto di conoscenze tecniche ultra-specialistiche per poter “garantire la tracciabilità del collegamento attraverso l’assegnazione temporanea di un indirizzo IP e il mantenimento di un registro informatico dell’associazione temporanea di tale indirizzo IP al MAC address del terminale utilizzato per l’accesso alla rete Internet”. Cose da maghi del computer, nel Paese della scarsa alfabetizzazione digitale e del piccolo commercio.

Accanto a questo capolavoro dell’elefantiasi normativa, sul quale dopo la massiccia mobilitazione della rete è probabile si faccia un’ennesima e stavolta auspicabile giravolta (ma attenzione ai dettagli), ha fatto la sua apparizione, relegata in verità alle pagine su norme e tributi dei quotidiani economici del weekend (non proprio una lettura da ombrellone), un nuovo acronimo, il Durt. Che, nella sua assonanza beffarda con il Durc, uno dei documenti più odiati dalle imprese di tutta Italia, sta per Documento unico di regolarità tributaria, che verrebbe rilasciato dall’Agenzia delle Entrate e dovrebbe attestare l’inesistenza di debiti tributari per imposte, sanzioni e interessi riguardanti gli adempimenti già scaduti. Anche qui, come nel Wi-Fi, in teoria l’intenzione iniziale dichiarata è positiva (in questo caso, facilitare la rapida liquidazione di appaltatori e subappaltatori) ma la realtà dei fatti si mette fatalmente di traverso al nostro legislatore. In attesa che diventi operativa la fatturazione elettronica e non disponendo l’Agenzia delle Entrate di dati in tempo reale, i soggetti interessati dovrebbero infatti sobbarcarsi l’onere di trasmettere “i dati contabili e i documenti primari relativi alle retribuzioni erogate, ai contributi versati e alle imposte dovute”. Per la gioia incontenibile dei commercialisti, ai quali non parrà vero il lavoro in più che gli piove dal cielo (o meglio dallo Stato) in un momento di crisi generalizzato.

Ma non si tratta “solo” di un adempimento in più, che dovrebbe entrare in vigore a stretto giro, entro sei mesi dalla conversione in Legge del Decreto, in luogo dell’attuale autocertificazione che è oggi sufficiente a neutralizzare la possibile responsabilità solidale dell’appaltatore rispetto ai subappaltatori.

Come al solito, oltre ai costi diretti, più norme portano anche più oneri indiretti, attraverso la maggiore incertezza (in attesa delle circolari delle amministrazioni dello Stato, che potrebbero materializzarsi prima o poi, un po’ come i capi d’imputazione per Josef K. ne “Il Processo” di Kafka).  

Ad esempio, nella formulazione del testo emendato, non si capisce se anche il committente debba rispondere in solido rispetto ai mancati versamenti di appaltatori e subappaltatori. Ma anche cosa succeda se il debito tributario è il risultato di un atto impugnato presso le Commissioni tributarie.

Nel momento in cui la Pubblica Amministrazione cerca di mettersi in regola rispetto alla puntualità dei pagamenti (anche se molta strada rimane ancora da fare, nonostante una Direttiva europea), sembra quasi che dall’altro lato voglia farlo selezionando attraverso una procedura complicata e costosa i soggetti che meritino tale riguardo (che dovrebbe essere vissuto come un diritto legittimo in qualsiasi rapporto di lavoro a fronte di una prestazione regolarmente eseguita).  

Se questo è l’approccio di un Decreto che si chiama del Fare, preferiamo non si faccia un bel nulla e ci si limiti soltanto a recepire ciò che si fa a Bruxelles o in qualsiasi altro posto fuori dai confini di un Paese che dimostra di aver perso, nelle sue istituzioni più importanti, il senso della realtà. Una colpa grave che diventa dolo di fronte alla crisi economica più grave del Dopoguerra.

 

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