La politica puoi finanziarla in modo trasparente o sottobanco. Attenzione, nulla a che vedere con la legalità. Per la legge possono essere legittime entrambe le soluzioni. Nel secondo caso però, a differenza del primo, non dai la possibilità ai media e all’opinione pubblica di conoscere l’ammontare esatto del tuo finanziamento.
Negli Stati Uniti funziona più o meno così. O meglio, succede che a causa di una decisione della Corte Suprema, non possono essere posti limiti precisi all’ammontare dei finanziamenti che i candidati possono raccogliere, anche da parte di sindacati e aziende. Il quadro è reso ancora più complesso dal fatto che hai a disposizione le cifre generali, ma non tutti i parziali.
La decisione della Corte Suprema – come tante di quelle più delicate espresse negli ultimi anni: pensate a temi come aborto, diritti delle minoranze o detenzione di armi da fuoco – è il frutto di una complessa mediazione politica tra l’anima conservatrice e quella progressista (i “magnifici 9” restano in carica a vita, e sono di nomina politica) e dell’esigenza di trovare un ordine di priorità ai principi che reggono il sistema normativo a stelle e strisce. é quindi una decisione criticabile, sotto molti punti di vista, ma non è certo priva di un suo fondamento logico.
Sono pochi quelli che hanno la possibilità di criticare la Corte e definire il suo lavoro (appunto, la sentenza) addirittura una decisione “stupida”. Uno di questi è l’ex Presidente Jimmy Carter, che la settimana scorsa ha usato proprio questa espressione (Qui un approfondimento dell’Huffington Post).
Cosa dice Carter? Fondamentalmente due cose. La prima è che senza porre un freno ai finanziamenti pubblici ai partiti – o rendere perfettamente trasparenti tutti i finanziamenti – si finisce per danneggiare l’indipendenza dei candidati. Tanto è vero (ed è la seconda critica) che poi ti ritrovi nominati ambasciatori i finanziatori più generosi. é una vecchia abitudine americana, che non manca di creare ogni volta qualche polemica (Qui un approfondimento sul tema).
A Carter democratici e repubblicani non rispondono direttamente. Si limitano a osservare che nel 1976 e nel 1980 anche lui non avrebbe mai potuto ottenere il seggio presidenziale senza un supporto economico consistente. Sorprendentemente – e candidamente – Carter risponde che è vero: “I would say that it’s almost impossible for a candidate, like I was back in those early days or others even, to be considered seriously as a candidate to represent the Democratic or Republican parties as nominee if you can’t raise $100 million or $200 million from contributors, many of whom know that they are making an investment in how they are going to be treated by the winner after the election is over”.
Come sempre le vicende che accadono in casa altrui sono utili per leggere meglio anche quelle che avvengono nei confini nazionali. Carter parla espressamente di “investimento” da parte dei finanziatori sui candidati. Quasi puntassero su un cavallo che, se vincerà, gli consentirà di andare a ritirare il premio al botteghino. Lo sanno anche i nostri candidati politici. Compresi quelli che siedono in Consiglio dei Ministri (non tutti, è chiaro). Gli stessi che provengono dai partiti che stanno tirando per le lunghe la legge sul finanziamento ai partiti e gli stessi che hanno colpito – e affondato – la norma del DDL lobby (e quindi tutto il DDL) che li riguardava più da vicino.
Il problema è che qui riesce difficile pensare a un Carter di turno che esca fuori e alzi la voce.