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La democrazia che ringrazia il mercato

Pochi giorni fa L’istituto Bruno Leoni ha pubblicato un focus paper di grande interesse. Titola “Investire in democrazia. Finanziamento alla politica, lobby e trasparenza”. Lo firma Paolo Zanetto, lobbista e co-titolare di uno stimato studio italiano di lobbying. Il paper è brillante. Scritto in modo eccellente, ben argomentato, mai noioso. Vale la pena di essere letto. Lo trovate Qui.

Cosa dice Zanetto? Fondamentalmente due cose. La prima prende spunto dalla proposta di riforma (riforma, attenzione, non abolizione, come molti continuano erroneamente a scrivere) del finanziamento pubblico ai partiti. È un tema caldo. Ancora ieri un tweet del premier Letta ribadiva l’intenzione del governo di andare avanti per la propria strada, con o senza il supporto del Parlamento. In sostanza: se non vi va bene il disegno di legge ne faremo un decreto legge.

Partendo da questo presupposto, il paper affronta un interrogativo tanto semplice quanto – almeno in apparenza – paradossale. E cioè che, da una parte, abbiamo un impatto economico della politica (intesa come attività legislativa e regolamentare) massiccio. Lo si misura nell’ordine dei miliardi di euro o dollari, a seconda del lato dell’oceano dal quale lo osserviamo. Dall’altra parte abbiamo i “famigerati” finanziamenti alla politica. Presi singolarmente, possono sembrarci ingenti. O addirittura spropositati. In realtà, in proporzione, sono infinitesimali rispetto ai primi. Un esempio che vale per tutti: il rapporto tra donazioni e budget di spesa federale nel 2000 (l’anno di George W. Bush vs Al Gore) è stato dello 0,1%, a favore della seconda ovviamente. Di qui la domanda (e insieme il paradosso): perché? Per quale motivo spendere se poi, facendo i conti della serva, la disproporzione è così evidente?

La seconda cosa che scrive Zanetto, e che alla fine lo porta a ricollegarsi al caso italiano, è che non conviene intervenire limitando, o addirittura punendo, l’imprenditore che finanzia la politica. Non è lì la sede delle distorsioni, se mai ce ne fossero. La soluzione è altrove, nell’incentivazione del regime della trasparenza. O, per meglio dire, dei watchdog, per usare un termine esotico, cui affidare il monitoraggio dell’attività politica di ciascun deputato, oltre che degli OpenData. Il tutto, naturalmente, condito da una serie di altri interventi normativi mirati. Non ultimo, e di certo non meno importante, quello sulla regolamentazione del lobbying.

Il ragionamento di Zanetto fila, con qualche se e qualche ma. Non tanto nelle conclusioni cui arriva (che, anzi, non si possono non condividere) quanto nei passaggi logici che segue. Tre in particolare:

1) il primo riguarda il presunto scollamento tra l’incidenza del finanziamento erogato da una azienda (lobbista) nei confronti del politico di turno (lobbato). Se ci limitiamo a osservare i numeri – cosa che il paper fa in modo egregio, anche se con dati non proprio recenti – la conclusione è ineluttabile: sembrerebbe quasi sconveniente finanziare un politico. L’esperienza ci insegna che il ritorno è minimo. Si arriva così al paradosso opposto: perché si dovrebbe investire anche un solo dollaro (o euro) nella politica? La spiegazione è uno dei passaggi più spassosi del testo. Sostanzialmente, lo si potrebbe fare per mero ritorno di immagine, oppure perché è una consuetudine, o magari per “comprare” l’attenzione del destinatario.

Tutto vero. Il paper però omette di indicare le forme alternative e meno palesi di rewarding. Da questo punto di vista, insomma, la fa troppo semplice. In realtà i modi per “ricompensare” un generoso donatore non sono soltanto l’immediato riscontro in sede di voto. Sarebbe troppo facile, come un brutto libro giallo, dove scopri subito il colpevole. E invece ci sono tante pratiche di ringraziamento meno palesi. Una in particolare è stata oggetto di polemiche recenti: riguarda l’abitudine di offrire poltrone eccellenti nella diplomazia ai grandi donatori. Ne ho già scritto Qui.

2) Il secondo punto meno condivisibile del ragionamento sta nell’assunto, quasi categorico, per cui sono i cittadini, e non le aziende, a finanziare la politica. Non è vero. O meglio, non è più necessariamente vero. Per due ragioni. La prima è la sfiducia collettiva verso la politica. Ammetto che è un fenomeno più italiano – o europeo – che statunitense, ma non per questo può essere trascurato. Un articolo di Tommaso Labate pubblicato ieri sul Corriere della Sera si è divertito a raccontare il calo verticale degli iscritti ai partiti dagli anni 50 ad oggi. Sono la metà di quanti erano al tempo. Insomma, sempre meno la società civile si dimostra disposta ad appoggiare l’attività della politica. Se quindi è (ancora) vero che il finanziamento privato prevale su quello “aziendale”, è anche vero, o molto probabile, che non lo sarà più a lungo. O non lo sarà nei termini e nelle proporzioni che conosciamo oggi.

E qui viene il secondo aspetto critico. I finanziamenti privati alla politica, soprattutto quelli dei piccoli (di quelli che se fossimo al club delle boccette chiameremmo “amatori”) diminuiscono proporzionalmente alla nascita e alla diffusione di strumenti alternativi di controllo e raccolta dei fondi. Quanto ai primi, sono proprio i casi che riporta il paper a fare scuola. LobbyPlag, Maplight (e, aggiungerei, Openpolis) svolgono tutti una funzione educativa del cittadino. Costui, grazie al digitale, sente di avere un legame, e in qualche modo un controllo, sul politico anche senza doverlo necessariamente finanziare. È proprio grazie ai nuovi sistemi di raccolta di finanziamenti che si spostano i capitali dei privati. Piccole somme che, insieme, fanno grandi capitali. Parlo ovviamente del crowdfunding (una stima di 15 milioni di euro per l’anno in corso, secondo gli italiani di Fundraising Network). Non è un caso se la prossima Forza Italia, ma anche i democrats, studiano come applicare questi strumenti anche a proprio vantaggio. Per il momento non ci sono riusciti, e anche per questo perdono fondi.

3) Terzo, e ultimo, aspetto critico riguarda gli OpenData. Vorrei avere la stessa fiducia che si respira leggendo quello che scrive Zanetto sul tema. Come se vivessimo in una realtà in cui questi dati aperti sono già sostanza e non – ahimè – fumo. Il partito più open di tutti, il movimento a 5 stelle, ha pubblicato in grave ritardo, e in modo parziale, i dati relativi ai finanziamenti elettorali. Non conosciamo informazioni vitali della vita politica (e questo potrebbe applicarsi anche all’amministrazione) perché non vengono rilasciate. E perché non vengono rilasciate? Perché manca la volontà di farlo, oltre alla capacità di farne uso, da parte del cittadino comune e (quel che è peggio) da parte degli addetti ai lavori, giornalisti in primo luogo.

Fatte salve queste piccole considerazioni a margine, la tesi di Zanetto è corretta. Ci si muove in direzione di un ripensamento integrale del modo di interagire tra aziende, lobbisti, politica e cittadini, oppure non ci si muove. Affinchè, per riprendere le ultime parole dell’autore, la democrazia possa veramente ringraziare il mercato. E viceversa.


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