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Lobby in crowdsourcing

I libri spiegano che il lobbying e la partecipazione dei cittadini sono due cose diverse. Le differenze non sono tanto negli scopi – che fanno capo alla democrazia partecipativa – quanto nei mezzi. Per semplificare: il lobbying è svolto da professionisti, privati o di azienda, che agiscono senza bisogno di sollecitazioni da parte dell’istituzione che decide. Del resto, è il loro mestiere. La seconda appartiene ai cittadini comuni che, di solito, si attivano su input delle istituzioni, e lo fanno con finalità generiche. La “promessa” che vien fatta loro è semplice: dimmi cosa ne pensi e lo terrò in considerazione quando decido.

Si potrebbero scrivere pagine e pagine sulle differenze tra lobbying e pratiche di democrazia partecipativa. Ma basta un attimo e ti rendi conto che possono essere inutili. In pochi attimi le differenze tra le due diventano fittizie. L’ultimo esempio è quello dell’iniziativa promossa dalla Internet Association americana. Loro sono i rappresentanti delle grandi compagnie che lavorano sul web e – dicono – delle comunità di riferimento (Qui il sito). Ieri hanno lanciato un nuovo hub, ovviamente online, nel quale chiedono ai cittadini di dire la loro su tutte le attività svolte dal Congresso che hanno una ricaduta sul tema web.

Ad “average Joe”, l’equivalente del nostro Mario Rossi, si offre la possibilità di “lobbare” il Congresso attraverso il sito, ma anche attraverso i principali social network. L’hub fa da collettore, li classifica secondo una tassonomia che comprende 14 aree di policy, li sintetizza nel formato del momento (quello di twitter, con un massimo di 150 battute) e li indirizza verso il congressman/woman competente.

Michael Beckeman, il presidente della Internet Association intervistato da TechPresident (Qui) spiega che “Our association developed this website to be the most unique in Washington, by appealing to a global online community. Our website needs to represent the Internet industry and be a useful tool for the millions of people who care about the future of a free and innovative Internet. The design is meant to be forward thinking, not only in aesthetics, but also in grassroots engagement”. Ambizioso, non c’è che dire.

Ambizioso ma non isolato. TechPresident fa notare che quello della Internet Association è soltanto l’ultimo di una lunga serie. Al punto che oramai si può considerare prassi l’unire, da parte delle aziende, un lobbying più tradizionale con queste forme di crowdsourcing. Per esempio Ebay qualche mese fa ha scritto a tutti i suoi utenti più affezionati sollecitandoli a “farsi sentire” presso il Congresso per opporsi a una legge che avrebbe introdotto una nuova tassa sulle transazioni.

L’evoluzione del lobbying in e-partecipazione democratica – o, se preferite, la professionalizzazione della democrazia partecipativa – è un fenomeno interessante, ma anche molto rischioso. Per tante ragioni. Tre in particolare:

– Primo, perché al pari del lobbying la partecipazione democratica aggregata attraverso il web non può essere inventata e richiede un impegno notevole in tempo e denaro. Anche una grande azienda potrebbe avere difficoltà a gestire la cosa con successo.

– Secondo, perché ultimamente si è cominciato ad abusare della democrazia online, come se fosse panacea di tutti i mali. L’Istituto Bruno Leoni ha usato un’espressione efficace: “la democrazia dei quiz”. Come se bastasse una manciata di domande online per accaparrarsi il consenso dei cittadini (Qui un approfondimento).

– Terzo, perché l’entusiasmo per la partecipazione online lascia presto lo spazio all’indifferenza. E sono poche le pratiche di democrazia partecipativa che si possono dire davvero riuscite. Cito solamente due dati, entrambi a loro modo eclatanti. Il primo ci dice che spesso il numero di partecipanti è talmente basso da non avere alcun valore statistico. è successo ultimamente con la consultazione pubblica sull’impatto per la regolamentazione. Hanno aderito in 26. Ridicolo (Qui un approfondimento per TechEconomy). La seconda è che anche nelle intenzioni gli italiani che si dichiarano disposti a partecipare a forme di democrazia online è bassino: 45% (il dato è del Censis). Se considerate lo scollamento naturale tra l’intenzione (il dire) e la partecipazione reale (il fare) vi renderete conto che sono molto pochi.

Per un po forse vale la pena mantenere la distinzione tra lobbying e democrazia partecipativa. L’ibridazione, se è iniziata, è molto lontana dal completamento.



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