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Monti e la scelta poco civica di destabilizzare il governo Letta

Che la situazione che si è creata dopo le elezioni politiche e dopo l’elezione del capo dello Stato non sia positiva per nessuno, men che meno per Scelta Civica, non c’era bisogno di attendere gli ultimi giorni. Gli scricchiolii del governo Letta, infatti, dovuti anche alle dichiarazioni forcaiole del presidente del Senato, non hanno fatto altro che dare una nuova occasione a Mario Monti per esplicitare qualche velleità, tutto sommato poco convincente.

A spiegare, in fondo, l’astrusità, per non dire l’assurdità, delle ultime uscite critiche verso l’esecutivo dell’ex premier basta guardare la situazione politica sottostante la grande coalizione che regge la maggioranza.

Non esistono serie alternative plausibili nell’immediato a questo governo, e perciò non c’è più alcuna possibilità futura di guardare con interesse ad altre scelte civiche. Questo giudizio duro si giustifica non tanto per la mancanza in sé di un senso che la linea di centro potrebbe avere, ma perché una reale uscita contingente al dualismo destra-sinistra non è percorribile semplicemente con qualche ottimistica e sbandierata idea di riformicchia. Anzi, sotto la coltre del doroteismo lettiano, conviene ripeterlo, in assenza al momento di altre chance, la contestazione della gente aumenta ogni giorno di più, e ogni giorno mostra le sue crepe, allontanando l’Italia dalla ripresa economica e dal pessimismo.

La colpa non è di qualcuno, neanche di Scelta Civica, ma di come è fatto il Paese, diviso tra bande guerreggianti sebbene temporaneamente disarmate, e soprattutto senza alcun legame politico alle tradizioni nazionali di ieri e ai raggruppamenti europei di oggi. Pd escluso, naturalmente. E malaguratamente.

Ebbene, parlare, come fa Monti, di un’istanza riformatrice che manca, essendo elemento minoritario di centro di una maggioranza tanto ampia, non è insensato in sé, ma è solo troppo strumentale per reggere, e troppo poco consistente per convincere.

Il punto politico è un altro, purtroppo. È importante che, come dopo una sbornia durata venti anni, si riaccenda dall’alto una discussione sobria sulle grandi radici della politica nazionale, mettendo da parte gli slogan e i tentativi di sopravvivenza a tutti i costi di qualcosa e di qualcuno.

Personalmente sono d’accordo con Paolo Cirino Pomicino e Gianni De Michelis, i quali, a conclusione di una bella giornata di confronto alla Camera la settimana scorsa, hanno lanciato il progetto di discutere seriamente e in profondità sulle identità politiche italiane spazzate vie dai giudici e poi dimenticate: quella democristiana, quella socialista e quella liberale, innanzitutto. Un progetto ideale che faccia dialogare insieme le culture riformatrici di governo, ossia chi la politica la conosce e chi la sa fare veramente. Solo se le antiche matrici culturali si ritrovano e discutono insieme, ciascuna con la propria consapevolezza e senza confondersi tra loro, allora per il Paese potrà esserci un futuro non tecnocratico e non grillino.

Nel frattempo, infatti, dal basso viene sempre più forte un vento di contestazione minacciosa perfettamente adeguata ad un bipolarismo ormai allo sbando, con i colori del populismo e dell’astensionismo.

Si può essere liberali, democristiani e socialisti, e così adeguarsi ai tempi che cambiano e ai nuovi e vecchi problemi nazionali che crescono. Ma non ci si può presentare ancora una volta sotto la falsariga di una labile scelta civica, magari con qualche nome di prestigio in più da piazzare e da infilare in Parlamento o al Governo unicamente per soddisfare qualche ambizione individuale non ancora contentata a dovere.

Ripartiamo, insomma, dai fondamentali, quelli europei, e poi adeguiamoli ai problemi attuali. Il resto non ha storia, quindi non ha futuro politico. Diciamo agli italiani chi siamo, liberali, democristiani o socialisti, così almeno potremo dire agli elettori cosa vogliamo essere senza prendere in giro nessuno. Neanche noi stessi.

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