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Pdl e Pd amoreggiano per scardinare la legge Fornero sulle pensioni

Durante la “diretta” di un talk show di nuovo conio (ed apparentemente più ragionato e meno unilaterale dei soliti, rappresentati negli studi del nostro sgangherato oligopolio televisivo) Mario Monti – a prova della validità delle rimostranze di Scelta civica nei confronti dell’azione della maggioranza e del governo – ha reso noto che è in corso l’esame nella Commissione Lavoro della Camera di due progetti di legge, molto simili, di cui sono rispettivamente firmatari per uno, del Pd, il presidente Cesare Damiano e per l’altro, del PdL, il vice presidente Renata Polverini: il contenuto di entrambi è rivolto ad introdurre un percorso di pensionamento flessibile, un intento sicuramente lodevole se non fosse perché le revisioni proposte finirebbero per modificare strutturalmente la riforma Fornero in un aspetto cruciale come l’innalzamento dell’età pensionabile.

Nulla – ne siamo consapevoli – è più “politicamente corretto del cosiddetto pensionamento flessibile. Basta sussurrare, con il tono giusto, che occorre contemperare le esigenze di vita delle persone con quelle di adeguamento del sistema ai trend demografici – magari attraverso un meccanismo di disincentivi/incentivi legati all’età anagrafica al momento dell’accesso al trattamento di pensione – per essere anche convincenti e fare la figura del vero riformista.

Parlare di pensionamento flessibile scalda il cuore di chi ascolta (promettendogli una uscita di sicurezza) in un Paese come l’Italia in cui si comincia a pensare alla pensione all’inizio della scuola elementare quando si capisce, entrando per la prima volta in classe, che è cominciata la vita vera. Tanto che il sottoscritto, appena approdato alla Camera nella precedente legislatura, volle mettere subito a frutto vent’anni di pratica e di studio in materia di pensioni presentando nel luglio del 2008, un progetto di legge (AC 1299) in cui campeggiava la proposta di pensionamento flessibile in un range compreso tra 62 e 67 anni.

Il fatto è che, allora, gli uomini – sia con le quote sia con il canale solo contributivo a prescindere dall’età – potevano andare in pensione di anzianità ad un età inferiore a 60 anni, mentre il trattamento di vecchiaia, usato in larga prevalenza dalle donne perché richiedeva un’anzianità contributiva più ridotta, si attestava anch’esso a quella stessa età.

Pertanto, la mia proposta garantiva comunque un incremento dell’età pensionabile. Per questo motivo venne criticata dalla sinistra politica e sindacale, mentre la Ragioneria dello Stato fece notare che, in quel modo, si finiva per abbassare a 62 anni il requisito di vecchiaia per gli uomini allora già stabilito a 65 anni. Ma, senza soffermarsi più di tanto su quello che avrebbe potuto essere, ma non è stato (“i fiori che non colsi”) è fin troppo ovvio far notare che, dal 2008 ad oggi, sono intervenuti tanti cambiamenti nel sistema pensionistico, che renderebbero particolarmente oneroso aprire adesso la pagina della flessibilità nei termini in cui è stata posta, nell’iniziativa politica in corso.

Il criterio del pensionamento flessibile è presente non solo nei progetti di legge già citati (a cui hanno fatto seguito testi di altri gruppi), ma il tema è stato ripreso, sulla scorta delle comunicazioni di Enrico Letta sulla fiducia, anche dal ministro Enrico Giovannini in un recente articolo su di un quotidiano economico. Nei fatti, tale impostazione finirebbe per abbassare i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla riforma Fornero, determinando, quindi, effetti economici negativi, stimabili a regime in almeno una decina di miliardi.

Non va dimenticato, infatti, che secondo le regole della contabilità, quando si introduce un vero e proprio diritto soggettivo al pensionamento all’interno di una fascia di età anagrafica compresa in un range di flessibilità diventa necessaria una copertura commisurata all’ipotesi che tutti i futuri pensionati si avvalgano del requisito più ridotto. Altrimenti è richiesta la fissazione di un numero massimo di possibili utenti su cui definire la copertura finanziaria, superato il quale non è più consentito usufruire del diritto.

Una procedura questa che darebbe luogo alle consuete proteste da parte degli esclusi. Il progetto capostipite, del neo presidente della Commissione Lavoro alla Camera Cesare Damiano, (con un requisito anagrafico minimo di 62 anni ed uno massimo di 70, ragguagliati ad un meccanismo – inadeguato a compensare i maggiori oneri – di disincentivi/incentivi, a fronte di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni) reintroduce, in aggiunta, il trattamento di anzianità (sulla base, unicamente, di un requisito contributivo di 41-42 anni) e riporta indietro l’età pensionabile di vecchiaia.

Tutto ciò senza neppure risolvere in modo strutturale – come si vorrebbe – la questione dei c.d. salvaguardati. A questi soggetti, in generale, non è precluso, alla luce della riforma Fornero, l’accesso alla pensione a causa di un requisito contributivo insufficiente (quasi tutti sono in grado di fare valere più di 35 anni di versamenti), ma in conseguenza di un’età, a volte, parecchio inferiore alla soglia (assunta come minima) di 62 anni.

In pratica, allora, la proposta Damiano si applicherebbe a tutti i lavoratori,o no, lasciando aperta la questione degli, i quali presenteranno il conto a partire dal 2015 (essendo risolti i casi insorgenti nel 2013 e 2014). Con inevitabile ricarico dei relativi oneri. Si dimostra, così e ancora una volta, la ragione per la quale i progetti di revisione del sistema pensionistico sono destinati, in pratica, a difendere i lavoratori anziani di oggi, non i giovani che saranno pensionati domani.



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