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Vi spiego perché le privatizzazioni di Saccomanni e Letta sono da scongiurare. I consigli di Sapelli

Il piano di privatizzazioni evocato dal premier Enrico Letta e dal ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni infiamma il dibattito economico. C’è chi lo ritiene uno strumento utile ad abbattere l’elefantiaco debito pubblico italiano, ben oltre i 2mila miliardi di euro; e c’è invece chi lo considera un modo per impoverire ulteriormente un Paese sull’orlo della desertificazione industriale.
Di questo secondo avviso è lo storico ed economista Giulio Sapelli (nella foto) che, in una conversazione con Formiche.net, spiega perché dismettere ora pezzi dell’economia italiana significherebbe condannare l’Italia ad un fosco destino.

Professor Sapelli, perché secondo lei non è giusto vendere quote di Eni, Enel e Finmeccanica?
Perché ripeteremmo gli errori del passato. Che con le privatizzazioni si riduca il debito pubblico è una bugia colossale. Lo abbiamo visto nel caso di quelle realizzate in modo discutibile da Prodi con pezzi dell’Iri – che ho denunciato nel 1993 nel mio libro “Sul capitalismo italiano. Trasformazione o declino” – e lo rivedremmo ora. Se dovessimo vendere quello che si sente in queste ore ridurremmo il debito pubblico di una dimensione compresa tra lo 0,5 e l’1%. Non mi sembra un grande affare. In più, privatizzare senza liberalizzare, peggiorerebbe ancora di più le cose.

Da più parti viene però chiesto all’Italia di privatizzare. Ciò è in linea con quanto accade nel resto dell’Unione europea?
Direi tutt’altro. Altrove si tende a proteggere i cosiddetti “campioni nazionali“, tenendo sotto il controllo dello Stato i pezzi strategici e pregiati delle proprie economie. Viste con quest’ottica, le parole di Saccomanni e – con mio stupore, vista la sua competenza e prudenza – di Enrico Letta, sono del tutto incomprensibili. E poi, secondo una vecchia regola, se proprio le si vuole fare, queste operazioni non si annunciano: si fanno e basta.

Ritiene che le quote di queste grandi aziende possano essere la base per operazioni finanziarie senza dismetterle? E se sì, di che tipo?
Salvo alcune aziende che sono bene amministrate, ma non potranno mai diventare global player (come le Poste, che hanno perso tempo fa la loro occasione di spostarsi sulla logistica come le Poste tedesche e che invece sono diventare un’ennesima banca, un grande errore strategico), l’Italia conta solo su due aziende con proiezione mondiale come Eni e Finmeccanica – quest’ultima in affanno per i noti scandali giudiziari – e una di dimensione europea come Enel. Su queste tre realtà sarebbe utile concentrare iniezioni di capitali, anche stranieri, e alleanze con gruppi non finanziari ma industriali, appartenenti alla stessa filiera tecnologica-industriale.

Qualche esempio?
Nei prossimi anni le rivoluzioni introdotte in campo energetico da shale oil e shale gas necessiteranno in tempi brevi di fortissimi investimenti, che Eni non potrà affrontare da sola. Sarebbe utile riflettere su partnership internazionali con aziende come Shell o BP.
Allo stesso modo Finmeccanica – sempre che non si realizzi davvero quella riforma della Difesa europea che vorrebbe dire avvantaggiare solo le aziende tedesche – dovrebbe continuare quanto di pregevole fatto da Guarguaglini, che non a caso è stato “fatto fuori”. Da manager accorto e lungimirante aveva capito che il futuro del nostro comparto militare, di Difesa e aerospaziale dipende da alleanze industriali in chiave transatlantica, come egli aveva iniziato a fare con AgustaWestland e la collaborazione tra Alenia e Boeing. Abbiamo la fortuna di avere la golden share, che è l’unica cosa che – ritengo inconsapevolmente – abbia fatto di buono il governo Monti. Dico inconsapevolmente perché tutto il resto delle sue azioni è solo servito a creare le condizioni per ciò a cui assistiamo in queste ore: la consegna della manifattura italiana in mani straniere.


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