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Come cambia la strategia Usa nella guerra al terrore

Il mondo tiene il fiato sospeso per quello che gli Usa temono possa essere un nuovo attacco terroristico contro l’Occidente e i suoi simboli. L’allerta massima è in Yemen, dove il Dipartimento di Stato americano ha chiesto a tutti i cittadini statunitensi di abbandonare “immediatamente” il Paese.
L’allarme è arrivato dopo la decisione di chiudere fino a nuovo ordine 19 fra Ambasciate e consolati in Medio Oriente ed Africa.

L’Italia, come ha detto il ministro degli Esteri Emma Bonino, ha ridotto l’attività dell’Ambasciata a Sana’a, ma “non c`è un rischio attentati nelle nostre Ambasciate all’estero”.

La scelta americana invece è stata presa sulla base di intercettazioni delle conversazioni tra il numero uno di Al Qaeda Ayman Al-Zawahiri e il leader del gruppo affiliato nello Yemen. Secondo il sito online del New York Times, Zawahiri avrebbe dato ordine la settimana scorsa al gruppo nella penisola arabica, guidato da Nasser al-Wuhayshi, di compiere un attentato.
Nel corso di una conferenza stampa a Washington, la vice-portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf, si è rifiutata di fornire dettagli sulle minacce: “Stiamo continuando a valutare le informazioni, ad analizzarle e prendiamo delle misure cautelative per proteggere i nostri dipendenti, i visitatori e le infrastrutture all’estero”, ha ripetuto più volte Harf, che ha aggiunto unicamente: “Al Qaeda nello Yemen è l’organizzazione terroristica più attiva fra le filiali di Al Qaeda”.

Se il pericolo di attacchi sarà stato reale o no, questo si valuterà in seguito, sulla base di elementi concreti.

Ciò che è evidente, come rileva la società d’intelligence Stratfor, è che la maggior parte delle sedi diplomatiche chiuse in queste ore dagli Usa, compresa quella di Sana’a, rispondono ad altissimi criteri di sicurezza. Nello specifico, quella yemenita è stata costruita in conformità con le norme stabilite dalla Commissione Inman. Pertanto, è stata progettata per resistere ad attacchi dinamitardi e assalti armati.
Eppure, anche edifici ben realizzati sono vulnerabili ad aggressioni di massa come quella diretta contro l’Ambasciata americana a Tunisi nel mese di settembre del 2012. Solo le forze di sicurezza del Paese ospitante sono in grado di fornire protezione contro queste minacce.
È per questo che la strategia Usa nei confronti del rischio di attacchi, negli ultimi anni, ha subito una successiva evoluzione.
Da un lato la minaccia di offensive a sedi diplomatiche è una costante del terrorismo moderno; così com’è vero che nel frattempo Al Qaeda si è attrezzata, arricchendosi di nuove e pericolose figure come il fabbricante di bombe Ibrahim al-Asiri, capace di risolvere alcuni problemi organizzativi che affliggevano l’organizzazione terroristica.

Dall’altro, però, questo tipo d’intimidazioni spesso non accade concretamente e fa parte della stessa strategia del terrore, atta a creare un clima di minaccia persistente, con lo scopo di modificare la vita quotidiana di chi è minacciato.

A questo clima di costante pericolo, gli Usa hanno deciso di rispondere con una sovrabbondanza di cautela.
A fare paura non è solo il ricordo ancora vivo dell’attacco domestico dell’11 settembre 2001, ma il timore ben più recente di un altro “9/11”, quello che nel 2012 portò alla morte dell’Ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens, ucciso durante un assalto alla sede consolare statunitense di Bengasi durante una manifestazione di protesta contro la blasfemia antislamica. Una morte inattesa, che ha scosso profondamente la diplomazia a stelle e strisce.

Il nemico numero 1 rimane sempre Al Qaeda, con i suoi gruppi in “franchising” in numerosi Paesi, soprattutto africani; un continente che si configura sempre più come la nuova culla dell’integralismo religioso.

Ma a spaventare è anche la sensazione di non riuscire a controllare eventi come questi, mettendo inutilmente a repentaglio vite umane. Perciò a Washington si ritiene preferibile reagire a queste minacce con un eccesso di zelo che provoca un’inevitabile amplificazione mediatica.

Il terrorismo è però una realtà duratura, che va affrontata con una cultura della sicurezza che non si esaurirà con la pur doverosa chiusura momentanea di quelle sedi diplomatiche.
Una cultura che gli Stati Uniti, seppur faticosamente, si sforzano di costruire, ma alla quale è chiamata in causa anche l’Europa, che sembra aver delegato la lotta al terrore al solo alleato transatlantico. Un rischio forse troppo alto.


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