Se la democrazia è un processo composto da più parti che, tutte assieme, concorrono alla sua completezza, non è possibile aspettarsi la sua affermazione all’indomani di una rivoluzione. L’Egitto è scosso da tumulti più o meno violenti a seconda del periodo a partire dal 2011, quando sono scoppiate le proteste di piazza Tarhir contro il presidente Hosni Mubarak.
Come ha fatto notare Ian Buruma, professore di democrazia, diritti umani e giornalismo al Bard College, la caratteristica di molti Paesi mediorientali – ma non solo – è l’essere stati oppressi per anni da regimi militari che hanno provocato non solo un irrigidimento delle strutture istituzionali, ma anche una crisi economica sempre maggiore provocata da politiche poco interessate al progresso del Paese. Sostiene il professore su The Globe and Mail, i cittadini hanno subito un impoverimento dovuto alla crisi, la mancanza di politiche sociali e la condanna delle loro organizzazioni religiose da parte dei regimi per poter controllare le masse. L’insieme di questi fattori interni (ma senza dimenticare le influenze internazionali) ha portato Paesi come l’Egitto alla situazione attuale.
La soluzione? “Give democracy a chance”, sostiene Buruma; bisogna dare alla democrazia la possibilità di svilupparsi e crescere, e non sarà possibile se non lasciando ai cittadini la libertà di esprimere, in qualche forma, la loro religione pubblicamente, e con la chiave essenziale della libertà di espressione anche per tutte le idee e punti di vista diversi dall’Islam. Senza queste libertà, la democrazia resterà illiberale, conclude il professore.