L’Italia, non fosse altro che per ragioni geografiche (e storiche), ha una posizione centrale nel Mediterraneo ed ha una invidiabile tradizione nel favorire il dialogo in Medio Oriente.
Mentre i partiti si arrovellano sulle sorti di Silvio Berlusconi, la cui eventuale decadenza parlamentare indubbiamente rappresenta un nodo istituzionale rilevantissimo, il rischio è che non si seguano con la dovuta attenzione i fatti che non lontano dai nostri confini si stanno determinando.
Nel caos determinato dall’arresto di Morsi in Egitto e dall’acuirsi della guerra civile in Siria, abbiamo probabilmente sottovalutato l’importanza dei negoziati di pace fra Israele e Palestina. Nonostante i reciproci irrigidimenti ed i robusti tentativi di boicottaggio, i colloqui stanno andando avanti. Se l’esito sarà positivo sarebbe azzardato prevederlo ma la posta in palio è così importante che sarebbe irresponsabile non sostenere lo sforzo messo in campo dalla diplomazia americana.
Proprio il Segretario di Stato, John Kerry, potrebbe regalare una nuova grande opportunità all’Italia scegliendola come luogo che ospiterà il prossimo round negoziale. Le indiscrezioni giornalistiche parlano di un possibile incontro a Roma il prossimo 8 settembre, subito dopo il vertice G20 di San Pietroburgo. Essere anche solo il teatro di un così rilevante incontro, dovrebbe essere motivo di orgoglio. Ovviamente, a quanto è dato sapere, l’opzione di scelta del nostro Paese non è ancora ufficiale. La vicenda siriana è un dossier diverso e distinto rispetto al dialogo israelo-palestinese ma certamente non è troppo distante, anzi. È chiaro che la posizione italiana sul probabile intervento a Damasco non risulta del tutto irrilevante e nelle relazioni internazionali vi è la consuetudine a pesare e misurare ogni singola parola espressa dai governi e dai suoi rappresentanti.
L’Italia è oggi impegnata in Afghanistan e, soprattutto, in Libano dove è molto forte la presenza di Hezbollah, soggetto politico-militare (terrorista) alleato strategico di Siria e Iran. È evidente che se l’attacco alle basi militari dell’esercito lealista di Assad dovesse provocare un effetto domino – che nessuno vuole o auspica – la missione Unifil in Libano si troverebbe in prima fila in uno scenario che probabilmente richiederà un rafforzamento dei contingenti attualmente impiegati.
Insomma, in quel quadrante, il nostro Paese non solo c’è già ma dovrebbe mettere nel conto l’ipotesi di un ulteriore coinvolgimento. Quanto alle basi che dovessero rivelarsi utili nel caso di intervento in Siria, quelle di Grecia e Cipro risultano allo stato attuali più che sufficienti. L’impegno diretto di nostre truppe o nostri supporti logistici al momento non sono richiesti dai nostri alleati. L’intervento di Kerry l’altra sera (“un’oscenità morale” l’uso di armi chimiche) e le parole apparentemente contraddittorie scelte dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, (gli Usa vogliono punire Assad per il gas nervino ma non perseguono il regime change), danno il senso di un obiettivo che non può stare a cuore soltanto agli Stati Uniti o all’alleanza dei Paesi arabi e sunniti che cercano la vendetta nei confronti del regime di Damasco.
Le Nazioni Unite, giustamente invocate anche dal ministro degli Esteri Emma Bonino, purtroppo registrano una divisione nel Consiglio di sicurezza che difficilmente potrà essere superata e che probabilmente, nel breve periodo, verrà acuita. Le relazioni fra Stati Uniti e Russia sono tornate a toccare punte molto negative. C’è da sperare e da lavorare affinché il G20 possa segnare l’inizio di un nuovo disgelo ma anche in questo caso c’è poco da essere ottimisti e tanto più dopo la gestione del caso Snowden da parte di Putin.
In questo contesto, Washington non chiede all’Italia un impegno diretto nell’eventuale missione in Siria ma un esplicito sostegno politico sulla base che è inaccettabile che l’uso di armi chimiche possa essere tollerato. Una risposta appare doverosa ed è tanto più forte se espressa anche da un Paese come l’Italia che non partecipa alle operazioni militari e che ha sempre cercato (e cerca) di essere un ponte fra le diverse istanze che muovono in Medio Oriente.
Roma, come è noto, non è solo la sede di Palazzo Chigi e della Farnesina ma è anche la città che ospita la massima autorità cattolica, il Pontefice. Non sfugge a nessuno, e tanto meno alla politica italiana, che la Chiesa è molto prudente su Assad e molto diffidente sui suoi oppositori sia in termini di libertà religiosa che di vera e propria persecuzione contro i cristiani.
Governo e Parlamento non sono però chiamati a scegliere fra Obama e Papa Francesco. La sfida che sta alla classe dirigente italiana è di continuare ad essere un baluardo tanto dell’Alleanza atlantica quanto del dialogo con Israele (la cui amicizia non può che essere un punto cardinale della nostra politica estera e di difesa) come, in modo diverso, con quei regimi o movimenti considerati più ostili (Iran e Hezbollah, per fare un esempio).
Le modalità con cui i nostri partner stanno immaginando l’eventuale intervento in Siria sono molto favorevoli al gioco italiano. A condizione ovviamente che prevalga l’atteggiamento che sembra muovere il presidente del Consiglio Enrico Letta che correttamente ha parlato di sostegno del Paese nel quadro di una iniziativa multilaterale (e quindi anche mettendo nel conto che possa non esserci, come non ci sarà, una benedizione delle Nazioni Unite).
D’altronde, l’Italia ha quattro esigenze fondamentali: 1) avere le carte in regole per poter giocare successivamente un ruolo di mediazione, per esempio nell’ambito di Ginevra 2; 2) essere nella condizione di poter coerentemente richiamare la comunità internazionale e gli alleati a prendere adeguate contromisure quando ad essere attaccati sono soggetti cristiani; 3) poter porre in modo più forte ed autorevole il tema dell’immigrazione come questione europea e non nazionale; 4) offrire un contributo ai negoziati di pace fra Israele e Palestina. Se Roma finisse schiacciata, anche solo apparentemente, alle posizioni di Mosca e Teheran molti di questi traguardi si allontanerebbero.
Il gioco di equilibrismo non è facilissimo ma la storia della Prima Repubblica è esemplare delle opportunità e dei rischi che corriamo. L’ipotesi che il segretario di Stato Usa Kerry possa ritornare in Italia l’8 settembre con i leader di Israele e Palestina dà il senso del ruolo che possiamo giocare. E che non dobbiamo sprecare.