Chi pone con toni ultimativi (magari mascherati con qualche formale benevolenza) la questione della estromissione dalla politica di Silvio Berlusconi, dovrebbe innanzi tutto interrogarsi sul perché il mancato statista e oggi anche pregiudicato abbia preso anche nelle ultime elezioni il trenta per cento dei voti, più o meno quanto raccolto dal superfavorito Pierluigi Bersani, e tre volte tanto del racimolato dal cocco dell’establishment Mario Monti. Chi parte da questo dato può capire come dal 1994 in poi Berlusconi sia diventato per una fetta larga della società italiana l’unico in grado di garantire alcuni elementi di fondo: la non resa alle élite (tipo gli sfascisti di Repubblica) e alla aree dell’establishment orientate a forme di controllo dall’alto e non trasparenti della nostra società; la resistenza con – pur con tutti i suoi evidenti limiti e gravi errori- all’aumento dell’oppressione fiscale; un contrasto al sistema di influenze straniere che questo tipo di élite ed establishment hanno favorito; la contrapposizione a una concezione autoritaria dello Stato rappresentata dalla magistratura combattente; un ostacolo (più o meno efficiente, ma un ostacolo) a quel centralismo burocratico che tante aree della pubblica amministrazione nonché una Cgil molto sfiatata tendono ad affermare come principale caratteristica di azione.
In questa situazione forse Berlusconi non è “insostituibile” ma comunque “non è stato sostituito” né c’è alcuno ancora che si proponga e sia al momento in condizione di rappresentare l’elettorato da lui raccolto tenendo conto dei sentimenti che questo esprime. E in questo senso se il leader del centrodestra verrà eliminato con la forza e il disdegno, diverrà anche “non sostituibile” perché parte decisiva dei suoi elettori degraderà verso forme primitive di protesta a cui il governo Monti ha dato già il suo bel contributo provocando un voto al 24 per cento per Beppe Grillo.
Non sfugge come la condanna definitiva del patron di Mediaset ponga una questione rilevante: il rispettare l’esito delle sentenze è elemento ordinatore di una civiltà democratica. Ma preservare la vita dello Stato è questione dirimente per una comunità nazionale: la crisi verticale dello Stato apre ferite al ruolo della legge ben maggiori di qualsiasi pasticciata soluzione politica. Lo sbandamento del nostro Stato incrementatosi dopo il 2010 (e ancor più dopo il 2011) è netto e spiega bene quanto i nostri vitali interessi siano disdegnati sulla scena internazionale. Dalla vicenda dei marò in India alla destabilizzazione della Libia, alla persecuzione delle nostre aziende all’estero (dall’Eni alla Finmeccanica) al disprezzo, dopo quello con cui ci trattarono Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, con cui oggi la Bundesbank tiene conto delle considerazioni di Enrico Letta, al peso che l’egiziana Emma Bonino esercita sul Cairo, a una Parigi che si comporta come noi (per le stesse petrolifere ragioni) sulle vicende kazake senza però suscitare alcuna reazione internazionale.
In questa situazione ragionare solo su “the rule of the law” senza considerare lo sfascio più generale dello Stato è come occuparsi di un mobile del massimo prestigio disinteressandosi della casa che brucia. I costituenti erano persone avvertite dell’esigenza di combinare valori fondamentali come l’indipendenza dei giudici con quello centrale per la Repubblica di garantire l’autonomia delle istituzioni della sovranità popolare e nazionale: da qui l’immunità parlamentare e l’uso “semplice” delle amnistie. Chi dice sciocchezze su Giulio Andreotti che si difendeva solo nei processi dovrebbe andare a rileggersi tutte le occasioni in cui il Parlamento impedì lo svolgersi di indagini giudiziarie sul suo conto. Questo metodo della Prima repubblica era certamente primitivo perché fondato su quel compromesso per contenere gli effetti da Guerra fredda cha ha determinato manchevolezze di fondo nel nostra sistema istituzionale, nasceva però da una visione realistica non solo dei problemi della giustizia ma anche di quelli fondamentali dello Stato.
Ed è appunto il realismo che oggi manca quando anche antichi e autorevoli comunisti sono passati dalla logica del “Che fare?” a quella del “Che dire?”. Il realismo implica comprendere come liquidare Berlusconi sbrigativamente significhi far sbandare una bella fetta della nostra società proprio quando servono basi ampie per sostenere uno Stato che deve recuperare quel minimo di autorevolezza che gli consenta di pesare su un sistema internazionale così rilevante per la nostra economia.
Solo una visione realistica dei problemi può consentire di costruire -e l’unica via possibile passa per una riforma dello Stato compresa quella della giustizia e questa via è impossibile senza concreti atti di pacificazione – poi gli esiti più felici: creare un nuovo centrodestra non solo carismatico, aiutare il centrosinistra perché sia una forza politica e non un pollaio, disarmare la magistratura combattente, contrastare le isole diffuse di illegalità, copnmtare qualcosa all’estero e così via.
Non è realistico, invece, pretendere atti unilaterali da parte di chi come Berlusconi ha votato per Giorgio Napolitano al Quirinale e per il governo Letta, per essere poi condannato da un giudice che sparla di lui nei banchetti e anticipa ai giornali le motivazioni delle sue sentenze. La logica di chi chiede soluzioni sbrigative non rispondenti alla concreta realtà è quella di chi prevedeva che non ci sarebbe stata nessuna guerra o che comunque sarebbe durata pochissima nel 1914 “perché non conveniva a nessuno”, e oggi di chi ha destabilizzato l’Egitto perché tanto poi si sarebbe sistemato tutto da solo.
Ai ceti che oggi votano Berlusconi l’idea che gli americani dominino in Piemonte, Sicilia e Firenze, i tedeschi nel Veneto e forse in Lombardia, i francesi a Siena, e magari i soliti spagnoli a Napoli, fa meno paura di finire nelle mani dei De Pasquale, delle Boccassini, degli Esposito, delle Camusso, dei De Magistris, degli Ingroia che porterebbero comunque alla dissoluzione ma con un surplus di prepotenze. A cinquecento anni da quel 1513 in cui con il suo Principe Niccolò Machiavelli fa l’ultimo sforzo per salvare la prospettiva di uno Stato nazionale mentre Francesco Guicciardini nei suoi Ricordi spiega come la partita sia ormai finita, avere una visione insieme di respiro e realistica è necessario per non alimentare puri chiacchiericci.