Se l’industricidio fosse un reato, in Italia registreremmo un’emergenza carceri ancora più grave. Nei tribunali avremmo i banchi degli imputati colmi. Ad essere accusati finirebbero: quegli stessi accusatori che perseguono (o fanno persecuzione) gli imprenditori solo perché tali; quei legislatori che scrivono norme per allargare i confini della Babele burocratica; quei politici che pigramente si accodano ai comitati del no contro la Tav, contro il Muos, contro il Tap, contro l’estrazione di petrolio e gas, in avversione a qualunque progetto infrastrutturale che porti progresso e crescita; quegli ambientalisti che, invece di scommettere sullo sviluppo sostenibile e sull’economia verde, puntano ad una jihad anti-impresa a prescindere; quei giornalisti che, potendo e dovendo scegliere, danno sempre voce a quanti sparano su quel poco che resta della manifattura italiana.
Per fortuna di questo lungo e sicuramente incompleto elenco di soggetti, il codice penale non contempla questa fattispecie di omicidio e le aziende continuano ad essere vittime, considerate “morti grigie” cui nessuno si interessa salvo chiedere garanzie pubbliche a favore dei dipendenti rimasti orfani del loro datore di lavoro.
In questo cupo scenario, nel quale – del tutto ragionevolmente – Marchionne spiega quanto sia difficile fare impresa in Italia, non mancano gli eroi. L’ultimo caso di cronaca, opportunamente occultato all’opinione pubblica, riguarda l’industria farmaceutica. Il gruppo Menarini della famiglia Aleotti ha acquisito una start up (italiana!): la Silicon Biosystems che, nata a valle di una tesi di laurea, ha saputo fare ricerca di eccellenza nella lotta contro il cancro. Si tratta di un investimento straordinariamente importante perché premia i giovani, la ricerca e il valore della salute. È un ulteriore esempio di un settore che, pur colpito dalla crisi e dai tagli “verticali” e non sempre intelligenti dei governi (ma non quello del ministro Lorenzin, va detto), si sforza di rilanciare ancora.
È il caso di Menarini appunto ma anche di altre realtà italiane non sempre note al grande pubblico. Pensiamo ai gioielli come la Chiesi (una multinazionale con bandiera tricolore) o la Mediolanum piuttosto che a marchi storici come Sigma Tau e Dompè. Senza contare l’impatto positivo che hanno le imprese multinazionali che qui investono per la ricerca e la produzione di farmaci innovativi (la Novartis, ad esempio).
Esempi virtuosi di capitali privati italiani in start up nate nel nostro Paese arrivano anche dal settore aerospaziale. In Puglia un importante imprenditore, Vito Pertosa, ha scommesso sul sogno di due giovani che volevano costruire un aereo dalle caratteristiche tecnologiche del tutto avanzate. In provincia di Bari è potuta così sorgere un’azienda, la Black Shape, che già da lavoro a poco meno di cento addetti e che presenta prospettiva di crescita di tutto rispetto. Esistono insomma storie diverse e diversi settori produttivi che rivelano una spiccata capacità di anticipare e interpretare il futuro e quindi orientate ad essere sostenibili in una competizione in cui il fattore “testa” conta sempre più del fattore “braccio” (il valore aggiunto della conoscenza in alternativa alla semplice disponibilità di manodopera a basso costo).
La verità è che a lottare contro l’industricidio (di Stato ma non solo) e per lo sviluppo della nostra economia ci sono le industrie stesse e pochi altri soggetti. Nei giorni del cupio dissolvi della storia recente della rappresentanza politica dei cosiddetti moderati forse varrebbe la pena riflettere su quali issues impegnarsi per costruire un’offerta di idee alternative all’ideologia che vorrebbe essere dominante.