Che il Trattato di Lisbona abbia cambiato – e molto – gli assetti e gli equilibri dell’Unione europea è un fatto noto. Dopo Lisbona, si legge spesso, l’Europa è posta in condizione di dirigere le politiche europee secondo l’impostazione e l’agenda di priorità dettate da Bruxelles e Strasburgo, e non più da Parigi, Berlino, Madrid, Roma e una qualunque delle sedi dei governi nazionali.
La domanda è: quanto è cambiato per i lobbisti? Al di là dei progressi (pochi) fatti sul fronte della trasparenza attraverso il registro unificato, e le (tante) proposte di modifica ancora sul tavolo, sono cambiate le prospettive per chi fa pressione? Di quanto?
La risposta la offre, tra i tanti, un articolo interessante pubblicato nel 2011 sul Berkley Journal of International Law (lo potete leggere QUI). L’articolo prova a quantificare (soprattutto da un punto di vista economico) i benefici che avrebbero le lobby nel post Lisbona. Per semplificare al massimo, la tesi di fondo è che praticamente tutte le novità introdotte da Lisbona pongono condizioni più favorevoli rispetto al passato per il lobbying.
Prima novità, il voto a maggioranza qualificata, che ha aumentato il volume (potenziale) di produzione legislativa e, come diretta conseguenza, ha reso ancora più importante il supporto del know-how tecnico che i professionisti della rappresentanza garantiscono ai funzionari europei. Nel dopo Lisbona il voto a maggioranza qualificata abbraccia una pletora di aree di policy. Tra le più importanti ci sono i fondi strutturali e di coesione, la libertà di movimento dei lavoratori, la sicurezza sociale, la difesa comune, la proprietà intellettuale, l’energia e il turismo. Sono tutte aree di grande interesse per il privato.
Seconda novità: l’ampliamento delle aree di co-decisione. Il Parlamento acquisisce poteri più ampi in aree sensibili come l’immigrazione, la cooperazione in materia di giustizia penale e di polizia (oltre che all’agricoltura, settore cruciale per i tanti interessi economici e non che coinvolge). Per una serie di ragioni che spiega bene il rapporto Sinergie del 2012 (curato dal CUEIM) il Parlamento si conferma luogo cruciale per gli attori del lobbying.
Terza novità è l’abolizione della distinzione tra spese obbligatorie e non obbligatorie. Anche qui è il Parlamento a guadagnare peso.
Non solo. Nel dopo Lisbona le lobby europee sono anche più numerose. La crescita dei lobbisti che operano a contatto con le istituzioni europee è solida. Basta leggere le stime diffuse nel corso degli anni dalla Commissione e da enti no profit come AlterEU. Nel 1992 la stima dei gruppi di pressione attivi a Bruxelles ne contava già 3mila. Erano quasi 8 volte di più dei 400 censiti nel 1970. E vale la pena ricordare che sono stime al ribasso, dal momento che il registro a iscrizione facoltativa non ci consente di avere un dato certo. L’ultima stima diffusa da AlterEu ha contato più di 20mila lobbisti dell’Unione. Un dato irrealistico? Tutt’altro. Il Parlamento europeo da solo registra ogni anno circa 700mila incontri ufficiali (ripeto: ufficiali. Sono esclusi quelli svolti al di fuori delle sedi istituzionali) tra i propri membri e i rappresentanti di interessi.
Meno bene, infine, il dato sui rapporti di forza tra attori del lobbying europeo. Il 75% dei lobbisti europei rappresentano le imprese. Mentre solo il 20% protegge gli interessi della società civile. Nel Parlamento europeo 3500 su 5000 gruppi di interesse sono business-oriented. Significa che, in sostanza, ogni 3 lobbisti 2 fanno gli interessi dell’industria e uno, da solo, perora i tanti interessi della società civile (quelli ambientali per esempio).
Finora i meccanismi di compensazione delle risorse concesse ai gruppi di pressione non hanno funzionato granché. Ed è facile capire il motivo. La Commissione potrà anche finanziare più del 50% delle associazioni no profit e lasciare le briciole all’industria (nel 2004 su 64 enti finanziati 28 erano organizzazioni di cittadini, 11 organizzazioni giovanili. Solamente 9 proveniva dal mondo delle imprese), ma finchè dovrà vedersela con una spesa media annuale di 40 milioni di euro (quella che investe, da sola, l’industria dei farmaci) la società civile lobbista resterà sempre un passo indietro.