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Liberisti contro interventisti del lobbying

Nel dibattito sulle regole da applicare alle lobby ci sono due voci. Una è quella dei liberisti, l’altra quella degli interventisti. Per sintetizzare: i primi sostengono che debba essere il mercato a stabilire gli equilibri tra domanda e offerta di partecipazione. La seconda teoria – che oggi va per la maggiore – sostiene il contrario. E cioè che il mercato, da solo, non basti. Serve un intervento statale a porre quanto meno le regole di base per chi fa lobbying.
Dove si scontrano interventisti e liberisti? Prevalentemente su un punto. E cioè che, a detta degli interventisti, l’assenza dello Stato dal mercato consegna le articolazioni del primo alla mercé dei grandi potentati industriali. La “potenza di fuoco” espressa da questi ultimi in termini di budget, risorse umane e competenze non può essere raggiunta dai piccoli e medi imprenditori, che quindi verrebbero esclusi dal confronto con il decisore pubblico. Il rischio è che le decisioni non siano conformi alle esigenze della collettività, ma solo di una minoranza.
Chi sostiene questa tesi trova riscontro nei numeri. È sufficiente osservare le cifre stanziate dalle multinazionali per rendersi conto del gap che le separa dalle imprese di piccole e medie dimensioni. Nel primo semestre del 2013 Amazon ha dichiarato uno stanziamento di 1,7 milioni di dollari per le attività di lobbying presso il Congresso statunitense. La potente associazione dei produttori di armi, la National Rifle Association, da gennaio a giugno ha investito 1,6 milioni di dollari in lobbying. La banca di investimenti Goldman Sachs 2 milioni. Verizon, Boeing, Lockeed, Google ed Exxon Mobil superano tutte i 7 milioni di dollari. In Europa il think tank Corporate Europe ha stimato che la spesa media annuale per attività di lobbying da parte delle grandi industrie farmaceutiche presso Commissione e Parlamento ammonta a 40 milioni di euro.
A loro volta i liberisti obiettano con tre argomentazioni. La prima riguarda gli attori del lobbying e suggerisce che le realtà più piccole possono superare il gap rispetto ai colossi dell’industria ricorrendo all’associazionismo. L’affermazione, tuttavia, è vera solo in parte. Per due motivi. Perché, anzitutto, le associazioni di imprese nascono per mediare tra tante posizioni diverse quanti sono i membri che ne fanno parte. Salvo alcuni temi sui quali c’è piena condivisione, è difficile per i singoli trovare piena soddisfazione delle loro esigenze. Ma soprattutto perché la categoria delle imprese non esaurisce la tipologia di attori che esercitano pressione sui decisori pubblici. Nel 2000 il Parlamento europeo censiva 2600 gruppi di interesse permanenti con ufficio di rappresentanza a Bruxelles. Un terzo erano trade federations, un quinto consulenti privati, le organizzazioni non governative e i sindacati detenevano una quota del 10% ciascuno, il 5% era appresentato da rappresentanze istituzionali e, infine, l’1% da think tank. Una stima precedente della Commissione europea aveva censito 3000 gruppi di interesse operanti tra Bruxelles e Strasburgo. Insieme disponevano di una forza lavoro di oltre diecimila professionisti. La stessa stampa è oramai considerata un formidabile attore di lobbying. Solamente a Bruxelles ci sono oltre 1000 giornalisti accreditati e le aziende più grandi come la BBC hanno le proprie strutture di rappresentanza istituzionale. È vero che da qualche anno nascono network e alleanze tra enti di categorie diverse dal settore imprenditoriale, soprattutto le no-profit. Il fenomeno è però ancora embrionale e poco studiato. Allo stato sembrerebbe che al terzo settore manchino mezzi adeguati per costituirsi in “cartello” ed esercitare un lobbying compatto.
Il secondo argomento, speculare al precedente, guarda al lato istituzionale e propone l’adozione di correttivi da parte dei decisori pubblici. È una soluzione che ha le potenzialità per funzionare. Si può scegliere di abbassare la soglia di sbarramento per consentire la partecipazione di un numero più ampio di soggetti. Oppure si possono creare incentivi, anche economici, all’inclusione di tutti i portatori di interessi. Il problema è che finora, dove sono stati sperimentati, gli incentivi non hanno prodotto risultati soddisfacenti. La Commissione europea tenta di compensare le asimmetrie creando un canale preferenziale nell’elargizione dei fondi ai gruppi di pressione che rappresentano la società civile rispetto a quelli che rappresentano le imprese. Nel 2004, dei 64 finanziati, 28 erano organizzazioni di cittadini, 11 organizzazioni giovanili e solamente 9 proveniva dal mondo delle imprese. Questa prassi non ha evitato le contestazioni sul diverso peso attribuito nel processo decisionali ad alcuni attori rispetto ad altri.
L’ultimo argomento è, tra i tre, il più convincente. È giusto – si sostiene – che il peso specifico della grande industria sia maggiore rispetto ad altri attori non istituzionali.top players industriali rappresentano le esigenze, non solo economiche, di un numero consistente di soggetti. Sicché nella disciplina dell’accesso dei gruppi di pressione alle decisioni non può trovare applicazione la logica del “una testa, un voto”. Vale piuttosto quella della democrazia rappresentativa, per cui la rilevanza nella formazione delle decisioni segue la caratura del portatore di interessi. Il solo punto debole di questo argomento è che in alcuni casi il tessuto produttivo è tale per cui la quasi totalità delle imprese è di piccole dimensioni. Non è un caso se in Italia, Paese a forte concentrazione di piccole realtà imprenditoriali, il Legislatore ha tentato a più riprese di sostenere forme di aggregazione produttiva ma anche rappresentativa, come i distretti.
Insomma, Stato sì, ma senza dimenticare il mercato.


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